[ 18.03.2011 – 0902 ]

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quale asciuttezza di parole, la luce è quella dopo la pioggia e le nuvole fioccano sulle montagne, disordinate e abbondanti, ancora incerte se sciogliersi al sole
questa metà di marzo vagamente invernale è un susseguirsi di piogge e pentole, giornate con molti scalini e le pance gonfie di uomini sconosciuti che riposano esposte come foche allo zoo, pance molli e tonde come zampogne che giacciono, oppure deambulano con lentezza / qualcuna di quelle buzze malamente coperta dal pigiama si tira dietro una flebo, strascicando piedi e pantofole lungo i corridoi / sono anfore silenziose nel tempo del transito

satura degli altri ho cominciato a chiudermi in un bozzolo di egoismo e guardo alle cose con penoso distacco – evito gli ascensori e i luoghi della sosta – disegno e cammino magramente
sto anche imparando a guidare
ingerire grassi mi fa sentire in colpa, così mi conquisto una posizione nella trasparenza, pur senza un tornaconto sentimentale: puro svanimento – supposizione di sopravvivenza esile e temporanea là dove la fuga è impraticabile

il mio ricambio quassù è meramente musicale, ma ho già nostalgia delle prose brevi, e del suo incedere sottile di mantide / non si dimentica niente a dire il vero, solo si mette da parte (come i vestiti e le coperte ai cambi di stagione), o si lascia che la polvere faccia il suo lavoro – con secolare pazienza

la risposta alla mia inquietudine è in quelle pance insipienti o sui loro volti rugosi e s.perduti nel perimetro di un televisore acceso, agganciato in alto, proprio dirimpetto ai letti appaiati
(non ricordo nemmeno se ho salutato)

ma sono ben consapevole che per ogni cosa esiste un’ultima volta in cui quella stessa cosa si rivela ed esiste – ogni parola pronunciata ha un ultimo suono, e da qualche parte si consolida un elenco di ultimità già date che non sono in grado di scongiurare o contraddicere, perché inevitabilmente ne ignoro il contenuto

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