invece di sostituire l’arte alla vita, gli architetti urbani dovrebbero tornare a una strategia che nobiliti sia l’arte, sia la vita, e che valga a illuminare e a chiarire la vita, a spiegarcene i significati e l’ordine: nel caso in questione, ad una strategia che valga ad illuminare, chiarire e spiegare l’ordine urbano / jane jacobs



I
quando arrivo, il tendone dove tra pochi minuti si svolgerà l’incontro con vittorio gregotti è moderatamente affollato – mi guardo in giro e mi domando dove siano gli architetti: poi guardo meglio e realizzo con un guizzo di disperazione che ne sono circondata, che annego in una platea di laureati in architettura vestiti come camerieri, play-boy a riposo che soffrono di nostalgia o agenti di commercio pronti per suonare il campanello e venderti un’aspirapolvere / 

addio stile / bonjour tristesse

 


 

II
quanto sopra, ancor prima che vittorio gregotti dia inizio alla dissertazione sulla città pubblica (forzatamente o fortunosamente solitaria, dato che l’interlocutore è assente) / mi aspetto un discorso politico, ed in effetti quella che viene inizialmente posta come una questione estetica conseguente allo svuotamento dei contenuti teoretici e degli obiettivi programmatici inerenti la disciplina architettonica, svela progressivamente la drammatica condizione del rapporto non risolto tra oggetti architettonici (il più delle volte mediocri), abbandonati a se stessi, a galleggiare in un magma spaziale che è appannaggio di speculazioni e rendite private, un territorio post urbano intenzionalmente deregolarizzato in modo da massimizzare tale processo di barbarie edilizia e la proliferazione di scenari ormai tristemente familiari, caratterizzati dal profilo grossolano di qualche centro commerciale o da blocchi edilizi seriali privati di qualsiasi minima forma di intuizione progettuale / (l’immagine qui sopra parla da sola)
 

quello che sconcerta è l’indifferenza generale e la connivenza istituzionale che circondano tali scenari, l’indifferenza di cittadini pur deprivati del diritto al paesaggio e alla qualità urbana, ma anche degli stessi architetti, che di fronte a certe commesse di dubbio valore non girerebbero tanto facilmente la testa dall’altra parte, ipnotizzati da un’ulteriore occasione di clonare matericamente il proprio ego di calcestruzzo /

 


III
così – l’altro giorno gregotti parlava dello spazio tra le case, uno spazio di cui nessuno si occupa a livello politico affinchè possa rimanere il più a lungo possibile mercè della speculazione e dell’edificazione indiscriminata di grandi e piccoli oggetti di design tendenzioso, che praticano una mimesi superficiale con le mode del proprio tempo, mettendo in atto un rispecchiamento senza architettura /
 

lo spazio tra le case e quello tra le cose
quello tra le cose mie e di altri, quello che valica il confine personale, del giardino o del garage, lo spazio che diventa comune e poi solo di altri / c’è bisogno di fornire un linguaggio alle relazioni spaziali e soprattutto di legiferare in maniera intelligente e onesta – mi viene da dire che è l’urbanesimo la risposta, non l’architettura – e l’urbanesimo è principalmente una questione politica /
gli architetti sfruttano questa situazione di deregulation e di assenza di un riferimento teoretico disciplinare a loro uso e consumo / nessuno è in grado di sindacare, e il confronto con la mediocrità è sempre rassicurante per chi è mediocre di suo / inoltre, i professionisti dell’edilizia sono degli edonisti, da troppo tempo continuano ad occuparsi delle singole villette, delle gallerie alla moda, di rendere grazioso il negozio all’angolo, di inventare una bella scaffalatura /
questo sanno fare, questo gli è comodo fare e della politica gli importa solo che procuri qualche commesa in più e che il loro progetto passi in commissione edilizia / non lottano, non si arrabbiano – pensano a sbarcare il lunario ed a trovare qualche nuovo cliente (il ristorantino in periferia, lo chalet per le vacanze, la risistemazione di un vecchio parco) che lusinghi il loro ego sempre affamato /
… e questo sta bene alla politica, cui del resto della qualità dell’architettura e del paesaggio non è mai importato granchè, preferendo di gran lunga il chiasso delle archistar o il progettino frettoloso di qualche geometra compiacente per realizzare qualche affare speculativo che necessita di una firma /

insomma, possiamo dirlo senza temere di esagerare: stanti così le cose gli architetti non alterano l’esistente a livello sostanziale e dunque sono inutili – anzi, il più delle volte sono dannosi, perché utilizzano la materia come se fosse la più immateriale ed effimera delle sostanze, come se fosse un gas tossico che invade i lotti urbani addormentandone i fermenti, o la tintura di un parrucchiere che dopo qualche lavaggio restituisce ai capelli il tono orginale

invece è necessario trovare modelli efficaci – che lavorino su un livello altro rispetto a quello individuale / perchè fare bene le proprie cose (e le proprie case) non basta più, c’è bisogno di inventare un tessuto connettivo e di strutturarlo / c’è bisogno di chiedere alla politica che faccia il suo lavoro, che si occupi del territorio, delle case e dello spazio tra le case, ma anche di cercare risposte teoretiche che riportino la disciplina a una condizione condivisa

 


 

 

IV
la gran parte delle questioni trattate dal “vecchio professore” (*) durante l’incontro si trova condensata nel primo capitolo di “contro la fine dell’architettura” (da cui ho prelevato tutte le citazioni di questo post) / se andate a leggere, a un certo punto inciamperete nelle parole magiche: senso di necessità della pratica artistica
sembra così semplice a leggerle sulla carta! e pare che le soluzioni a tutti i problemi siano condensate in quella piccola frase / se ci interrogassimo con costanza sulla necessità di ogni azione professionale, di ogni atto pseudo-artistico od architettonico, sulla necessità di un acquisto così come di una scelta di vita, e soprattutto, se tale domanda fosse il metro di giudizio in merito all’esistente, forse potremmo sviluppare la coscienza critica necessaria a ristabilire un ordine delle cose, premessa a qualsiasi forma di civiltà e di vitalità professionale e artistica /
a un ordine potremo successivamente opporre qualche forma di disordine, sarà lecito e auspicabile trasgredirlo e metterlo in discussione, rifondarlo – ma là dove non c’è alcuna possibilità di avere dei riferimenti chiari, qualsiasi azione diventa aleatoria, soggettiva, effimera – appannaggio delle forze dominanti, che sappiamo essere quelle del mercato e non certo quelle mirate alla salvaguardia della civiltà e della cultura / 

sono le domande che potremmo porre a noi stessi (prima ancora che all’esterno) a conformare il progresso, è la nostra capacità di mettere in atto ragionamenti critici, migliorando le nostre azioni per poi pretendere il miglioramento di uno stato comune
ma quali strade potrebbe seguire la cultura nell’impostare un discorso critico, quali dovrebbero essere i punti di riferimento di un qualsiasi ricominciamento? giustamente a un certo punto gregotti, parlando della disciplina architettonica, oppone al rispecchiamento effimero nelle mode del momento, lo studio critico della storia e delle esperienze precedenti /
conoscere gli antefatti è forse l’unico modo attualmente a disposizione per intendere e modificare il presente / guardare per esempio alle tante forme di civiltà dell’italia del dopo-guerra, prendere spunto da certi fuochi culturalli che furono sotterrati con la presa di potere di una classe politica che aveva intravisto in tali fuochi una fonte di autonomia intellettuale dei cittadini, una fonte di bellezza condivisa e non la rendita più o meno occulta di pochi fortunati /

abbiamo a suo tempo votato per una democrazia e con il passare del tempo ci siamo illusi o abbiamo deciso che tale democrazia, anziché rappresentare un’opportunità di crescita a tutto tondo, fosse impostata unicamente sul raggiungimento di un benessere materiale, dimenticando come tale benessere vada mantenuto e sostenuto attraverso meccanismi culturali che garantiscano la permanenza delle regole (anche quelle più elementari) della civiltà e del rispetto

 

(*) detto in senso bonario e con il massimo rispetto per quella sua età così ricca di esperienza

immagini:

  1. vittorio gregotti a pordenone legge
  2. allen jones – chair 1969
  3. centro commerciale euroma 2
  4. francesco rosi – le mani sulla città 1963
  5. bill owens – suburbia 1972

 

5 Comments

  1. Tracciamenti,
    due aspetti del libro di Gregotti non mi convincono.
    Il primo la non velata (ma mai citato) risposta al libro di Franco La Cecla anche in questo caso giocando con un furbissimo titolo ‘contro la fine dell’architettura’.
    Il secondo l’idea dell’anti multidisciplinarismo a favore di un ritorno (si è mai perso?) accentramento del progetto dell’ente architetto.
    Una tesi molto stanca che non fa i conti con la storia sia del suo recente vissuto sia di oggi (in questo momento Milano – in piena crisi – è un brulicare di cantieri / grattacieli).
    Infine, vorrei capire che cos’è, dov’è, qual è la ‘città generica’.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

  2. vittorio a gregotti piace a pochi
    non è simpatico ed è un professionista che ha lasciato raramente tracce positivamente memorabili nell’architettura costruita / però ha scritto molto e piuttosto bene, a mio parere
    la sua è una posizione rigorosa, anacronistica per quanto è rigida e intransigente su alcune questioni primarie – anche per questo lo definirei un padre spirituale, avendo alcuni suoi libri saputo influenzare e cambiare il mio sguardo sulle cose molto profondamente / ho certamente operato una scissione tra il professionista e il teorico – sono le sue parole che mi interessano
    (in particolare, le scarpe di van gogh)

    detto questo, i due libri in questione (gregotti-la cecla) escono praticamente in contemporanea, e presumo che al massimo, quello che forse può aver subito delle variazioni, sia stato il titolo (e forse non ha deciso nemmeno lui ma la casa editrice, quien sabe?)
    del resto, le premesse ai contenuti di cui scrivo nel post erano già contenute in testi precedenti, cominciavano a germogliare in “dentro l’architettura”, per esempio / il libro di franco la cecla è pieno di spunti interessanti ma anche di approssimazioni estetiche e “discorsive” / è un libro di antropologia, che offre un controcanto ma che non si pone in relazione diretta con quello di gregotti

    a me non pare che v.g. postuli propriamente una centralità dell’architetto e soprattutto non si teorizza un abbandono della multidisciplinarità – ma si sostiene che per operare in qualsiasi direzione, solitaria o trasversale, c’è bisogno di una rifondazione di alcune regole, di alcuni riferimenti teoretici che sono venuti a mancare e che hanno generato una deregulation interna, sulla base anche di un qualunquismo e di un’inettitudine professionale di professionisti che non hanno saputo rispondere al proprio tempo strutturando una teoria della progettazione, una o più scuole di pensiero / gregotti afferma che prima di andare verso la multidisciplinarità la disciplina dovrebbe ripensare e ritrovare se stessa, che è diverso dal sostenere il ruolo isolato dell’architetto (lui, sostenitore senza ombre del movimento moderno, ha l’esempio brillante seppur remoto del bauhaus dalla sua)

    quanto all’ultima questione mi sembrava abbastanza chiara di per sé: la città generica è quella dove la pianificazione chiude gli occhi su una serie di specificità che non trovano risposta in fase di piano, per svariate ragioni che ho sinteticamente accennato sopra / il risultato è una spazialità non organizzata, non valorizzata, trascurata e spesso violentata, con conseguenze abbastanza gravi su alcune aree e privilegi irragionevoli in altre (all’incontro si è parlato di “post metropoli” facendo riferimento a centri molto estesi e popolati)

    spero di esser stata abbastanza coerente e chiara nelle risposte
    un caro saluto e grazie per il tuo commento
    c

  3. Tracciamenti,
    non conoscevo la tua passione per gli scritti di Gregotti, dici: «gregotti afferma che prima di andare verso la multidisciplinarità la disciplina dovrebbe ripensare e ritrovare se stessa».
    Ciò che non mi convince, nel 2011, è il ritornare alla disciplina dell’architettura, poiché l’architettura da anni si è emancipata dal concetto della ‘tecnica’ insita nel moderno (tecnica in funzione di x).
    Umberto Eco in occasione di un suo compleanno scrive (Lotus, n. 138): «Le forme postmoderne sono possibili non perché si oppongono al design moderno ne perché si sono assoggettate a una idea deteriore di design, ma perché il design “buono”, in cui la forma segue e comunica la funzione, è morto.
    Spero di essere stato più apocalittico di Gregotti. A anche se, come ho detto, sono un apocalittico cinico, e la radio alla Mazinga, che sta suonando Beethoven mentre scrivo, mi piace moltissimo».
    Non è una questione di multidisciplinarità ma di concezione se vuoi etica ed estetica (dovuta all’evoluzione tecnica e di pensiero) del nostro intorno.
    La ‘città generica’ è un’immagine troppo generica che non aiuta a descrivere le città in cui viviamo, scrivi: «la città generica è quella dove la pianificazione chiude gli occhi su una serie di specificità che non trovano risposta in fase di piano».
    I 390 comuni siciliani, hanno dinamiche e caratteri diversi tra loro, non genericamente sintetizzabili. Mi piacerebbe iniziare a parlare di città specifiche più che generiche, lascerei il termine ai didattici.
    Grazie a te,
    Salvatore D’Agostino

  4. se ci poniamo in termini costruttivi, pensando a una fortificazione ed una regolamentazione di una disciplina in crisi, possiamo continuare a parlarne – ma se vai in cerca di un’apocalisse reazionaria allora qualsiasi discorso diventa inutile! / tu e gregotti postulate lo stesso scenario, con l’unica differenza che lui prova a trovare una metodologia di intervento sulla disciplina, azzarda la necessità di darsi dei principi anche tornando sui propri passi e provando a riacchiappare i fili andati sciolti durante l’era postmoderna /
    (penso proprio che dovremmo assumerci l’onere etico di darcene qualcuno, di principio, ogni tanto, e che non sia un principio individuale, ma condiviso)
    ti ripeto: ritengo che agli architetti ed agli artisti in genere la situazione vada comoda così / ma personalmente qualsiasi forma di abbandono estetico alla forza centrifuga lasciando che la disciplina si schianti per raccogliere i resti mi pare più un alibi che una teoria /

    per quanto riguarda i paesi della sicilia, ho sottolineato che al convegno si parlava di metropoli: non di sciacca, noto, palermo o messina
    la città generica è quella che presenta problemi ricorrenti dovuti principalmente alla grandissima dimensione ed al popolamento, è una città di grandi flussi – e su quella tipologia gregotti azzardava delle osservazioni (che erano piuttosto dettagliate ed anche ricche di esempi, ma come potrai capire nel post non potevo riportare l’intero discorso)
    se poi vogliamo lavorare solo sulle differenze possiamo farlo, nessuno l’ha negato, non era in questione e non si discuteva di questo

    invece il mio discorso dello spazio tra oggetti architettonici si riferisce anche ai piccoli centri e riguarda non solo l’estetica urbana ma quella della progettazione più in generale / soprattutto riguarda uno spazio collettivo che dai progettisti (quanto ce n’è la possibilità e tale spazio non è appannaggio di qualche mafia o altra operazione speculativa) viene quasi sempre interpretato come un ennesimo oggetto, senza alcuna vocazione dinamica o relazionale (oppure simulando al computer scenari fantascientifici con scarsa attinenza con il reale) – molta maniera e poca disciplina, direi / soprattutto, nella gran parte dei casi, pochissimo talento di relazione profonda con il proprio tempo: si producono ancora oggetti di design, quasi sempre (ma anche qui: manca un sostegno ottimale ed efficace da parte della pianificazione e della politica, e i cittadini non chiedono e non pretendono)

    un saluto – devo ancora bere il caffè, stamattina (tutto questo alla cieca, quindi)

  5. Tracciamenti,
    per essere chiari, per me non ‘abbiamo perso il senso della disciplina’ ma l’azione etica ed estetica ‘borghese’ della polis (i non borghesi hanno sempre abitato senza disciplina).
    La città ‘non generica’ che viviamo è l’immagine della nostra ‘vita’ non di un ‘totalitarismo antidisciplinare architettonico’.
    Io partirei non dalla soluzione disciplinata ‘architettonica’ ma dal senso civico della polis.
    La mafia spesso è un atteggiamento condiviso ‘mafiosità’ di deregolamentazione ‘civile’ (o se vuoi del senso della polis condivisa dai più).
    Che io non giustifico (e lotto), ma che non mi sento di semplificare con il termine generico ‘mafia’.
    Parafrasando Eco: «Spero di essere stato più apocalittico di Gregotti. Anche se, come ho detto, sono un apocalittico cinico, e la radio alla Mazinga, che sta suonando ‘iosonouncane’ mentre scrivo, mi piace moltissimo».
    S

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