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30.04.12
le dolgono gli organi, quasi fosse al limite dello sfascio – e la stagione la investe con una particolare arroganza che poi non è altro che la vitalità spinta all’estremo, come un morso /
ciascun luogo in cui posa lo sguardo è verde e gonfio, gronda fiori e fogliame: ogni anno questo miracolo la coglie di sorpresa, rimane inebetita e quasi percossa dagli odori e dall’erba così verde e soffice che le ricorda l’immagine più perfetta del velluto /
conosce la differenza tra guardare e toccare, la mano dissolve il velluto perfetto in migliaia irregolari di spighe e steli, lo scompone in microscopiche ruvidità e stempera il colore nell’inenarrabile varietà delle gradazioni /

l’assolutezza del vero entra in conflitto con l’astrazione dell’occhio e sembra impossibile tenere insieme la distanza ed il contatto, come se ogni cosa ne contenesse tantissime, una per ogni passaggio dal guardare al toccare /

02.05.12
25 aprile già lontano, mese concluso, bandiere riavvolte (primo maggio trascorso in carnia, in un’acquario dove la celebrazione della storia è stata consapevolmente sostituita dal mercato dei fiori), impressione di praticare mondi separati e divisi da pregiudizi comodi e ostinati
il sollievo di non aver arredato, di non aver servito, di aver tentato pur senza sufficiente talento la strada irregolare e non allineata dell’irrequietezza che consegue ad una fede politica faticosa da praticare, si coniuga con la delusione per l’inconcludenza dei risultati, per i miei cinquant’anni spesi arrancando senza forma e senza luogo

05.05.12
è normale o giustificabile che io non simpatizzi facilmente con le persone che investono somme eccessive in abbigliamento e gadget?
mi attirano di più le anime spartane e di indole scarsamente mondana che coltivano forme di ricchezza non monetizzabili, ineressate alle zone d’ombra, alle pieghe dove il mercato non si insinua
mi piace chi cerca la musica e chi seleziona severamente le proprie letture, chi non si preoccupa esageratamente del proprio aspetto fisico, dell’apparenza che prima o poi delude più che ingannare
nemmeno sono attratta dagli svogliati, da coloro che non intrattengono una relazione consapevole e curiosa con l’estetica delle cose e del mondo / perchè rosso non è blu e verde non è giallo ma soprattutto, rosso chiaro non è rosso scuro
il pensiero – prende forma nelle sfumature

ascolto:
file! with jim o’rourke – unreleased? – 2011
faust – the faust tapes – 1973

ultimi giorni d’aprile
riflessioni schematiche scaturite viaggiando in corriera

il paesaggio italiano contemporaneo non mi piace, mi comunica una particolare malinconia, la sensazione di spaesamento per un’inconsistenza irriconoscibile basata sull’assemblaggio casuale di pezzi che non si parlano e non collaborano alla realizzazione dell’ambiente urbano – le città italiane hanno perso progressivamente la loro personalità per diventare mediocri e noiose, e dal dopoguerra ad oggi si sono trasformate in un’accozzaglia di materiale costruito privo di fascino
apprezzo maggiormente lo stile americano, senz’altro più sgraziato e pacchiano, ma dotato di una sua coerenza interna
in italia invece, i presupposti storici, culturali ed urbanistici, sono stati progressivamente traditi, scopiazzando sistematicamente quanto veniva proposto da altri paesi, da intelligenze che non si erano confrontate con il nostro contesto ma con il proprio, dando sempre più spazio ad un panorama senza identità, popolato di elementi estranei (pensiamo solo ai centri commerciali che hanno scopiazzato le mall americane) – ci sentivamo così moderni, ad “abbellire” il territorio con simili mostruosità!

e mentre altrove il paesaggio si conformava in risposta alla struttura identitaria degli abitanti, generando forme di armonia non impostate sul mero giudizio di bellezza (qui da noi ancora gli architetti si interrogano puerilmente e sterilmente sulla questione formale) ma sulla pratica corrispondenza e riconoscibilità per chi abita un luogo e lo utilizza, individuando la morfologia urbana più conforme alle abitudini di vita e realizzando un percorso prima di tutto identitario e quindi (eventualmente) di superficie, nel caso italiano si produceva al contrario una generalizzata perdita degli elementi tradizionali sostituiti da un’accozzaglia di riferimenti di importazione, essendo mancata una riflessione seria e mirata su quale avrebbe dovuto essere l’evoluzione dello stile italiano (anche e soprattutto nelle abitudini di vita) andando a lavorare su quello che la tradizione ci aveva insegnato dando un senso coerente e costruttivo alla modernità

così, oggi gli inventori della pizza mangiano hamburger al mc donald’s (le trattorie sono praticamente scomparse e molte delle pizzerie sono in mano a famiglie straniere), nella patria dell’alta moda si veste con abiti cinesi ed invece di rivitalizzare le piazze le abbiamo sostituite con centri commerciali dove i negozi aprono e chiudono a ritmo settimanale

in realtà definire la questione non è semplice, perché il processo in atto è di natura globale (grande ruolo ha la tecnologia), ma ci sono in italia particolari elementi di debolezza che non abbiamo saputo affrontare nel modo migliore, anzi, che abbiamo assecondato mettendo in mostra la nostra vocazione all’ignoranza e la totale assenza di anticorpi ed enzimi culturali ed etici

cos’è mancato all’italia negli ultimi sessant’anni?
cosa ci ha resi mediocri e spenti dal punto di vista culturale e artistico?
che cosa ha generato un sistema di abitudini e di regole così provinciale e sbiadito?

… sapessi rispondere ci scriverei un libro!

02.05.12
aggiorno il post con alcune parole trovate stamattina nel libro scelto per il viaggio: franco la cecla – contro l’architettura 

la cecla







percepisce nitidamente l’indole borghese di certe colleghe, quella particolare abilità nel combinare borse e scarpe che niente ha a che vedere con i patetici pendant da pochi soldi delle signorine di scarsa cultura, e tantomeno con il decoro sobrio di certe donne d’altri tempi che in modo quasi religioso assimilano la concordanza dei toni nell’abbigliamento a una forma di educazione di sottofondo, a un senso della dignità estetica impossibile da sradicare
invece, queste donne costosamente agghindate, capaci di combinare sapientemente il loro guardaroba in quanto parte di un rito mondano che compete al proprio ceto sociale, sicure ed eleganti con le loro grandi borse di marca (in verità non è solo prada a fare la differenza, il birkenstock può essere perfino più subdolo), le provocano una particolare forma di distante soggezione, una mestizia opaca – ed è impossibile per lei trovandosele di fronte abbandonarsi con disinvoltura al suo modo di essere approssimativo, percepire con agio i propri abbinamenti di oggetti e di pensieri, che contengono sempre qualche irrimediabile stonatura

l’inappartenenza è una delle questioni irrisolte, e quando si confronta con certe figure così definite socialmente, talmente riuscite nel distillare gli aspetti formali della loro essenza borghese, non può fare a meno di andare con la mente a tutte quelle figure che invece incontra quotidianamente sugli autobus o per le strade, la gente comune, le persone che potrebbe definire normali e che indossano e praticano una banalità senza pretese ma di cui spesso riesce a percepire nitidamente aspetti personali che le toccano il cuore

si sente sollevata ed estranea ad entrambe queste ragioni, capisce di trovarsi perennemente in bilico tra due sfere distinte e contrapposte, che trasportano diverse forme di brillantezza, a volte discutibili, altre misteriosamente emozionanti e complesse
ma quando prende la moleskine per scrivere o tracciare qualche segno, non è mai guardando alle signore inappuntabili e disinvolte dei ceti medio alti che trova un’ispirazione od uno spunto, e nemmeno alla capacità di certune di travestire la loro classe sociale facendola sembrare sinistramente alternativa – al massimo si incapriccia per qualche minuto di un cappotto o di un paio di pantaloni, che del resto non potrà mai permettersi, se non trovandoli per caso sul banco della roba usata, proprio come i protagonisti del romanzo di perec, pur senza uguali ambizioni di riscatto

pensa che l’abbigliamento rappresenti un codice significativo, un elemento di scrittura, un’indizio permanente di altri aspetti più incisivi della cultura, della personalità, e del ruolo sociale che ciascuno di noi riveste nel mondo – l’abbigliamento esprime e parla della nostra realtà indipendentemente dal fatto che siamo noi a sceglierlo o che sia una conseguenza involontaria delle circostanze od una necessità

… anche la nudità può rappresentare una forma di abbigliamento, si domanda? – capita mai di indossare il corpo come fosse una veste, qualcosa di cui potremmo o vorremmo spogliarci? e dove si collocano i tatuaggi? tra i gioielli od invece tra i capi di vestiario inamovibili della nostra pelle?

poi torna alla tazza del tè ormai quasi freddo

 

[sequenza di foto scattata a venezia nel 2002]

I
ieri guardavo con tristezza e un certo carico di delusione il video di patti smith e marlene kunz sul palco del teatro ariston, un’esibizione che a mio parere andrebbe presa e considerata ben al di là della sua riuscita artistica dato che il grande palcoscenico del mercato si sta inghiottendo via via qualsiasi icona, anche le più reticenti e pure, e non manca mai di ricordarci attraverso questi piccoli camei (che al pubblico inconsapevole forniscono quel retrogusto di trasgressione che tanto li fa godere, poco importa se si tratta di una riproduzione artificiale in stile disneyland) che lo spettacolo è in grado di fare quello che vuole, basta pagare, e che nessuno è abbastanza forte e in grado di rimanerne completamente fuori

l’italia bigotta in realtà non si scandalizza di fronte a niente, e tantomeno si pone domande, basta che tutto passi attraverso il vaglio ipnotico del teleschermo – inghiotte qualsiasi baggianata e piano piano si addormenta, diventa più lenta nei riflessi, si concentra sull’inutile e non si accorge nemmeno più delle ragioni per cui tira fuori i soldi dal portafoglio, e delle tante maniere in cui va pagando la sua scarsa consapevolezza, la sua pigrizia qualunquista e la sua vocazione strutturale all’approssimazione

qui un articolo di francesco merlo sull’ultimo sanremo

II
è di ieri sera la notizia che il sito di vajont.info è stato blindato da un giudice per aver pubblicato una battuta che metteva in relazione in modo piuttosto esplicito e pungente la mafia, la merda e due simpaticoni a caso, il cui nome noto a tutti evito di trascrivere per ragioni fin troppo ovvie

ecco dunque partire un provvedimento che non solo mette un grave e vergognoso bavaglio a una libera espressione (che certo sfiorava pericolosamente la diffamazione), ma opera in senso ben più pesante andando a rimuovere l’intera piattaforma e quindi tutti gli articoli in essa ospitati, senza che vi fosse alcuna condanna dichiarata per diffamazione rispetto ai contenuti incriminati
sono passate solo poche settimane dalla pesante operazione dell’antitrust americana nei confronti di megavideo ed altri siti di hosting, che ha drasticamente ridotto la possibilità di scambiare materiale online, e già ci troviamo di fronte ad un ulteriore e pericoloso impoverimento della rete, che sembra destinata a un futuro prossimo di progressiva irregimentazione, una stagione incalzante in cui verranno limitate gradualmente la libertà di espressione e di scambio dell’utenza e la possibilità di utilizzare internet per fini diversi da quelli dell’intrattenimento e del commercio, o della circolazione di dati e informazioni che si pongano in netto e radicale contrasto con le logiche di chi comanda
non vengono puniti i siti porno o quelli che invitano a giocare d’azzardo, sappiamo purtroppo che persino la rai ha deciso di ospitare alcuni spot di sale da gioco online – ma vengono e potrebbero ancora venir censurati e perseguiti penalmente tutti coloro che si esprimono in netto contrasto con le logiche partitarie o delle lobbies finanziarie, quelli che agiscono in funzione di una libera circolazione dei contenuti e che immaginano un mondo che ponga su un piano diverso le esigenze del mercato rispetto a molti altri obiettivi che vanno in diversa direzione, più democratica e attenta nei confronti dei diritti umani e dei valori sociali
la rete fa molta paura a tutte le forme di potere e l’unico modo possibile per neutralizzarla è quello di mettere un pesante bavaglio e dare il via a una politica di censure e sanzioni (non vedono l’ora!), nel tentativo di scoraggiare ogni forma di controcultura e qualsiasi altro tentativo di boicottare le svariate forme di supremazia economica cui siamo quotidianamente sottoposti

e mentre si prospettano simili scenari, prendono sempre più piede i social network, sui quali svariati milioni di persone spendono le loro giornate a scambiare informazioni e materiali, opinioni e dettagli di natura personale, senza fare caso al grande occhio che sorveglia ed incombe, e poco preoccupati che la loro privacy venga costantemente violata a loro insaputa / la maggior parte di loro – diciamolo – dissemina la rete di cazzate o tutt’al più di ogni genere di amenità, e quindi rappresenta un target ideale per il business e un soggetto che non desta preoccupazioni d’altro genere / non pensano alla censura, queste candide creature: magari parlano dell’ultima cravatta che hanno regalato al fidanzato, oppure riempiono la bacheca di fotografie anticate, processate con il loro iphone, si divertono a leggere le bacheche degli amici per rincarare la propria dose di quotidiane piacevolezze del tutto inutili per il pianeta – e se qualcuno viene censurato che importa?
la libertà per loro è poter scegliere un paio di calze o la macchina nuova
insomma, solo fuffa di ordinaria amministrazione che non fa paura a nessuno, là in alto

le considerazioni di wu ming sul caso vajont.info in un commento

qui un altro post che spiega in dettaglio la situazione e le sue possibili conseguenze

III
stamattina, parlando con un “collega” (mi sento poco adatta alla definizione di insegnante, ancora troppo imparante e incerta per quel ruolo) in merito a sanremo, mi son sentita dire che il festival e il calcio sono analoghe espressioni collettive di una certa italia, da mettere sullo stesso piano / la mia risposta, da amante della musica e della cultura molto più che del calcio (per quanto…), è stata che in genere chi va allo stadio conosce bene ciò che va a vedere, è consapevole del suo gusto e compie una scelta abbastanza precisa, pur con tutte le aberrazioni comportamentali che ne conseguono, mentre chi guarda sanremo nella maggioranza dei casi lo guarda e basta, e di musica o televisione non capisce proprio un cazzo – in genere è un pubblico che si annulla davanti a tante altre porcate televisive e aspetta questa kermesse per decerebrarsi una volta di più con la melma dei gossip e per impantanarsi fino agli occhi parlando di tutto fuor che di musica o di comunicazione: l’orlo di una gonna, la sfumatura dell’ombretto, il seno rifatto di una soubrette, il tatuaggio e la battuta grottesca, la mutanda si o la mutanda no? (e questo elenco di nobili quanto imprescindibili argomenti potrebbe continuare a lungo, purtroppo …)
tutto ridotto a mera chiacchera fine a sé stessa

mi è stato obiettato che le persone non dovrebbero giudicare, quasi che esprimere un giudizio personale su uno spettacolo mandato in onda da una rete pubblica (e sottolineo: pubblica) e le re-azioni dei cittadini-spettatori fose un atto di presunzione / quale dovrebbe essere dunque il ruolo del nostro cervello e il limite delle nostre opinioni nel momento in cui ci troviamo di fronte a un evento di natura collettiva che catalizza l’attenzione delle persone e dei principali media e che rientra nelle priorità televisive di così tanti italiani? quello di entrare in stand-by senza trarre conclusioni in merito o quello di analizzare criticamente la situazione prendendo una posizione che ha tutto il diritto di essere anche (ma non solo) ideologica e culturale? perché non posso giudicare quello che vedo se è conseguenza di una decadenza culturale ed intellettuale del mio paese? perché devo astenermi dal dire che di fronte a certi programmi basta un minimo di decenza e di intelligenza per decidere di cambiare canale dopo pochi minuti?

l'intelligente e provocatoria illustrazione di gianluca costantini

IV
siamo abituati a soprassedere, a mettere le cose in calderoni generosamente allargati e tolleranti, dove ci stanno comode e non causano turbamenti rispetto alla loro definizione / ma l’approssimazione rappresenta uno scanso delle proprie responsabilità, di pensiero prima, e di comunicazione poi –  ed è proprio l’approssimazione che in buona misura ci impedisce di assumere una posizione chiara e decisa nei confronti delle cose – perché spesso, per pigrizia o per comodità (quello che si definisce comunemente quieto vivere) preferiamo fare di molte erbe un fascio senza guardare più da vicino l’assetto reale delle cose ed oltretutto tollerando la differenza in tutte le sue forme, anche quando è solo conseguenza del mal vivere e di un deficit di pensiero

non si tratta di parlare di calcio o di sanremo, piuttosto di prendere in esame cosa sia veramente un evento collettivo condiviso per gli italiani, se esista qualche aspetto che susciti una reale e profonda identificazione, e con questo intendo dire che se davvero mi identifico con una certa cosa mi assumo la responsabilità di quella cosa e mi pongo criticamente (con coscienza critica) nei suoi confronti / possiamo scegliere solo ciò che conosciamo, e quando non scegliamo vuol dire che veniamo scelti (ma non sotto forma di investitura divina…)

non credo che la soluzione sia non possedere un televisore, non credo (penso di averlo già scritto) che rinunciare a uno strumento sia la posizione migliore / penso invece che gli strumenti vadano usati per ricevere le cose buone che sono in grado di offrire (l’altra sera per esempio, rai 5 ha trasmesso, pur se a un’ora indecente, bela tarr, tanto per dire) e che sia un nostro dovere fare in modo che tali strumenti rimangano al servizio del bene pubblico e lottare affinchè non diventino sempre di più causa di torpore mentale e di abbrutimento culturale /

quello che ho domandato al mio collega musicista nel momento in cui affermava che potendo sarebbe andato a sanremo per essere parte di quello che per lui è un grande per quanto discutibile progetto pubblico, è stato che cosa secondo lui sarebbe rimasto nel cervello degli italiani alla conclusione del festival e quale valore aggiunto contribuiva a dispensare la detta rassegna – la risposta era ovvia ed ha fatto de-cadere la conversazione, ma davvero ritorno sul mio vecchio adagio in merito al fatto che troppo poco ci domandiamo se le cose che facciamo, i libri che leggiamo e le nostre pratiche culturali siano in grado di renderci più forti e più ricchi o se siano invece soporifere pratiche di mantenimento, dove un’immobilità piacevole sembra essere l’unico bene perseguibile

l’accondiscendenza che dimostriamo nei confronti di molte situazioni culturali di misero compromesso e di scarsa qualità, è conseguenza del fatto che costruire variazioni del senso e perseguire una maggiore solidità culturale implica uno sforzo enorme, e soprattutto tante forme di rinuncia alla piacevolezza che invece impregna la scadente sottocultura cui siamo sempre più abituati / è faticoso e scomodo essere coerenti, è faticoso mettersi a smontare la realtà di ogni giorno e cercare il pelo nell’uovo delle cose, ci può rendere infelici, a guardar bene, e molto antipatici – e lo dico perché questo mondo recente mi angoscia profondamente, è un mondo che manca di valori condivisibili, è brutto e non mi piace / non mi piace esser costretta un po’ come tutti a cercare la gratificazione solo nel privato, nell’individuale, od entro i limiti di una condivisione locale / e non mi piace accontentarmi sempre e comunque / avrei bisogno di sentire che alcune cose vanno bene per tutti, o quantomeno per tanti, che esiste un piano più ampio per condividere il piacere così come lo sforzo della costruzione (e in questo caso intendo la costruzione politica nel suo senso più alto)
non mi importa nulla di sanremo, ho la televisione ma non lo guardo
ma mi ha ferita sapere che patti smith l’altra sera era su quel palco, perché era un altro tassello privo di senso che si aggiungeva al mosaico del presente, un altro momento di insensata contaminazione, perché non è più vero che l’importante è solo fare cose “belle” (posto che lo siano davvero) non importa dove e non importa quando / invece dovremmo proprio cominciare a decidere con più attenzione dove quando e soprattutto perché – sperando che almeno per quelli che come lei (patti) sono arrivati molto in alto, non siano i soldi od il prestigio personale l’unica discriminante alla base del compromesso

V
colophon
sono diventata antipatica, e pesante
è perchè sono infelice, e le ragioni non sono esclusivamente di natura personale: mancano le gioie condivise di cui sopra, i motivi per andare orgogliosa del mio paese, delle persone che ci governano, e più in generale per essere soddisfatta del tempo in cui vivo
in passato a scuola i colleghi erano contenti di vedermi, perchè dicevano che portavo con me una strampalata forma di allegria
ma era un’altra stagione
adesso immagino proprio che non sia così: sento di trasportare anche al lavoro questa pesantezza di pensiero, che si dissolve solo in compagnia dei ragazzi, quando siamo immersi nelle attività più concretamente connesse all’apprendimento ed allo scambio di contenuti
aspiro ad un lavoro che mi consenta di vivere in silenzio

marija-strajnic

quella scrittura mi ricorda certe scritte sui muri fatte con lo spray, che simulano le parole producendo al contrario grafemi senza senso, puramente decorativi / non andiamo a cercare di capire quei linguaggi: li si guarda piuttosto come fossero una greca fine a sè stessa, un modo tra tanti di ribadire la presenza e forse di esprimere un’abilità da amanuensi effimeri, da calligrafi del vuoto

ma sul web non esiste calligrafia perchè viene delegata ai font – ed allora ecco che il senso stesso del discorso si trasforma in flusso emotivo e indecifrabile, in merletto fonemico astratto e delicato / l’assenza di comprensibilità è data forse dal fatto che l’autore non si preoccupa di chi legge in termini di costruzione, non percepisce lo scrivere pubblico come qualcosa di etico e responsabilizzante, bensì come un gioco infantile, o piuttosto quale elemento mondano, decorativo e soprattutto effimero, destinato a polverizzarsi velocemente

[ questo, in contraddizione con l’atto stesso di coagulare pensieri in forma di parole, vorrebbe forse scardinare definitivamente il ruolo stabilizzante della scrittura ]

il discorso viene smaltito rapidamente, come un aperitivo o i finger-food di un happy hour

è una scrittura che tratta il dentro come se fosse un fuori e viceversa, scompaginando le gerarchie – apolitica, atopica, commerciale senza commercio, modaiola – unisce il sacro e il profano, la qualità con il mediocre formale ed estetico, come le riviste di moda e design (ambiti ormai irrimediabilmente compromessi dal loro connubio di dubbio gusto) ci impongono di fare già da molto tempo, per nascondere il fatto che non sono in grado di offrire ai consumatori-non-più-lettori prodotti innovativi che possiedano uno stile atrettanto importante di quello dei grandi maestri di altri tempi
in tutto questo è scrittura contemporanea

accompagnano tali tracciati verbali incondivisibili (se non forse da un ambito geo-generazionale ben preciso e limitato), serie di immagini precarie, vacue e monotone, che propongono per lo più scenari adolescenti – sono foto esotiche da fashion magazine alternativo, spesso ambientate in paesi che con fortunoso ritardo hanno perso le loro radici entrando in contatto asincopato con il sistema commerciale dell’occidente, perversamente soverchio / i soggetti delle foto sfoggiano diligentemente un degageè apparente composto di indumenti intimi e corna di cervo, dentro polaroid o immagini romanticamente trasandate cariche di tutte le gradazioni di una naturalezza ancora acerba, mimando infantilmente quello che da anni si pubblica sui fotolog giovanili di tutto il mondo (e che bruce weber proponeva qualche decennio addietro), ma contaminando quelle immagini con una naivetè esotica conferita dall’estetica in dismissione di paesi che finalmente si accingono ad adottare la stessa mediocrità culturale che qui da noi ha già imbevuto ogni angolo di ogni nostra città /

[ nessuna politica, solo l’adozione innocente ed istantanea quanto irreversibile del formalismo dilagante / fotografie dell’inizio della fine – dismissione della cultura dell’estetica e perdita della speranza ]

questo mi interessa di quelle immagini e questo mi dice la scrittura: che in fondo si vuole perdere la bellezza annacquandola in un halloween party o in un aperitivo bevuto in compagnia di qualche architetto trendy, o dentro a qualche circolo che si definisce alternativo (alternativo a cosa? ), commentando fotografie che sono riproduzioni di un’innocenza simulata, di una semplicità in provetta dove perfino lo sporco è inodore e fa parte del gioco, tenuto a debita distanza

dov’è la costruzione in tutto questo – dov’è il sapore autentico e impreciso delle cose? dov’è il futuro e quale la sua forma? dove sono i fatti (anche quelli culturali o para-culturali) che definiscono il mondo presente nella sua concretezza, e dove sono gli spiragli estetici che potrebbero renderlo differente?
questa scrittura del nulla sembra voler parlare senza esprimere, forse nella convinzione che nell’effimero del dire senza pensiero sia ascritto lo spirito del presente
(- ed in effetti potrebbe essere vero)

credo invece che il presente possieda la sua sostanza, e che sia spesso una sostanza cruda, priva di un’estetica gratificante o strutturata formalmente / molte persone portano avanti impegni e progetti concreti, innovativi e necessari, che difficilmente si troverebbero a loro agio su certi blog o sulle riviste di architettura e design, perché privi di appeal commerciale e soprattutto di edonismo /
ma abbiamo capito che le riviste di architettura e di tendenza non vedono l’ora di trovare il modo per rendere anche quei progetti parte del meccanismo della cultura mondana, di accaparrarsi qualche minuto di attenzione dei loro lettori attraverso una strategia che fagocita qualsiasi realtà tentando di ricondurla almeno per qualche istante a un livello mediatico privo di profondità e di odore
nel frattempo, le persone rali continuano a puzzare, a sudare, ed a fare i conti con la fine del mese – le persone normali non hanno i soldi per entrare in certi negozi di design, anzi, non si pongono nemmeno il problema e probabilmente in quei negozi non comprerebbero quasi niente, perché sono abituate ai banchetti dei cinesi o all’oviesse (oppure quando possono ai centri commerciali ed alle griffes più ridondanti) / e quando dicono qualcosa vorrebbero essere capite, le persone normali

di tutto questo molte riviste e blog che presumono di proporre cultura non si occupano mai: sono argomenti che non generano profitto e che non fanno tendenza, perfino noiosi
ci vediamo al prossimo aperitivo, oppure a un party

 

 

così ho pensato il mio contributo al progetto inedite: un contributo politico
sin dall’inizio l’idea di collaborare a una rivista con un progetto editoriale tradizionale mi interessava poco, e tra le varie cose mi era uscita l’idea di fare dei workshop, di mettere in piedi progetti al posto di realizzare articoli
luca ha detto: facciamo una rivista dove ogni numero è frutto di un workshop – perfetto

non amo la fretta, mi piace che le cose prendano corpo con la giusta lentezza
se si respira troppo veloci si va in iperventilazione ed è quello che sta succedendo al trio in-èdite /
personalmente avverto il bisogno di chiarire molti punti ancora oscuri, e definire il senso di questa operazione che vorrei sociale prima ancora che editoriale
per gli interlocutori le idee che ho messo in gioco sono probabilmente troppo politiche e questo mi fa pensare che sarà difficile che vengano tenute in considerazione con il loro autentico scopo / ma non mi importa che siano solo mie, che abbiano un copyright, per cui ho deciso di trascriverle man mano su questo blog, che in fondo è il taccuino della mia vita recente / mi interessa che le idee – qui o altrove – diventino spunto per un progetto, ma che sia un progetto più vicino a pollini che suona ai cantieri navali di genova che a un colorato laboratorio universitario di creativi intenti a mettere in piedi strutture e plastici che dei ruoli sociali non tengono conto che in maniera lontana ed astratta

mi piace l’idea che i ruoli sociali si tocchino, si confrontino, si annusino
mi piacerebbe che i workshop vedessero protagoniste le persone, e non squadre di professionisti patinati intenti a tracciare grafici che nessuno al di fuori degli addetti di categoria sarà in grado di leggere e non mi sento attratta da un ambito di lavoro editoriale dove l’architettura costituisca l’intelaiatura portante
i problemi attuali delle città dipendono in parte dalla cattiva progettazione ma molto anche dal fatto che è difficile mettere insieme logiche di intervento destinate a una società che i professionisti di fatto non conoscono a sufficienza: complessa, atomizzata, che parla tante lingue e mangia cose diverse
la mia parte politica vorrebbe fortemente che questi laboratori (meglio laboratorio di workshop) fossero destinati al coinvolgimento di quartiere, all’indagine sociale all’interno delle scuole, a tracciare un quadro della vita nelle poche fabbriche rimaste in italia, a provare a vedere se esiste ancora l’artigianato e come si colloca nel contesto produttivo
immagino sarebbe giusto dedicare alcuni numeri ai bambini, altri agli universitari, altri ancora alle donne che lavorano in casa, sia come casalinghe che come operaie trasparenti e delocalizzate

sulla base di esperienze passate (da linch a max frisch) l’intervista e il questionario sono secondo me l’ipotesi più plausibile di strumento di lavoro, la più economica e comprensibile, per avviare il processo di definizione di un possibile progetto, dato che al momento nessuno ha ancora le idee chiare in merito al fatto che questi laboratori dovrebbero essere destinati a qualcuno e trovare quindi una loro condizione di necessità, di determinazione culturale ma soprattutto sociale

data l’attuale indeterminatezza del progetto, la mia proposta è quella di realizzare un numero zero in cui vengono poste una serie di domande a diversi attori privilegiati in merito alla sua possibile strutturazione: editori, professionisti, persone che hanno svolto attività di coordinamento, rappresentanti di gruppi sociali, ma anche esponenti della cultura e del lavoro (penso a renzo piano ed alle sue ormai lontane esperienze di progettazione partecipata, penso a franco la cecla,  a don gallo ed altri che hanno destinato i loro sforzi a progetti collettivi ed allo studio delle forme comunitarie, senza ottenere altrettanta risonanza e fama)

insomma, non è facile far decollare un’idea, trovarle una forma, uno scopo, un senso
ci si prova, a volte ci si annega, a volte no

[continua ?]