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sandro bellomo vive per scelta nel cuore del salento ormai da una ventina d’anni, ha una bella voce dalla vena romana e un aspetto gradevole
il suo tratto grafico è veloce e sensibile / mi sono piaciuti subito i lavori che vende per strada, srotolandoli davanti ai passanti inconsapevoli, e che possiedono un equilibrio complesso e vivace di segni e colore – sono intensi, a volte esprimono assetti transitori e una ricerca personale ancora in atto
abbiamo parlato a lungo e durante la mia seconda gita a lecce condiviso il tempo di un pranzo

sul suo sito è possibile vedere una raccolta dei lavori più datati
per trovarlo di persona invece, dovete andare nella zona adiacente la piazza del duomo di lecce, durante l’estate

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son tornata ormai da così tanti giorni che il viaggio si è quasi annullato nella monotonia domestica di queste giornate agostane – nuvolose, malferme, improduttive / ma non mi dimentico delle pietre – di scrivere della leccese, del tufo, di calcari millenari che sembrano un legno smussato e svuotato dai tarli /

la pietra salentina è dolce, in particolare quella leccese si lascia s-formare da ogni tocco e da ogni soffio, dalle carezze dei fedeli nelle chiese, dall’acqua, dal vento – persino la luce ne altera progressivamente le superfici e il tono …

nella consolidazione assume una tonalità di colore ambrato simile a quella del miele (wiki) e così, girando per le strade di lecce sotto al sole, gli occhi si riempiono d’oro, di chiaro, di giallo paglierino, di una luce abbagliante e quasi gonfia di se stessa, dalla monotona assolutezza, ma pur elegante e impreziosita dai ricami dei balconi in ferro e da certi barbacani rifiniti come merletti grazie alla docilità delle polveri sottili di cui è formata la massa calcarea /
il paesaggio si fa metafisico e prezioso – quasi ti soffoca nella sua splendente coerenza monocromatica

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ma anche l’estetica del non finito trova in questa pietra il suo alleato finale, la chiave che ne definisce in modo perentorio l’ineluttabilità / non tutto si costruisce in pietra leccese, le cave salentine sono ricche di tufi calcarei quasi altrettanto docili anche se spesso dalla grana meno fine – sono pietre che non sopportano impassibili il passaggio delle stagioni, permettendo alle meteorologie di scrivere il loro transito sulla superficie della materia / i muri diventano calendari, raccontano l’età degli edifici, le sostituzioni, le tappe

questa stratificazione amplifica la vibratilità precaria del paesaggio, ne evidenzia gli stadi di caducità – alla base dei muri si conservano persino i minimi detriti, nulla si spreca, tutto si recupera, ma all’interno di un sistema estetico privo di una definizione, di una teoria /

è una costruzione che imita le macerie, inconsapevolmente

i tufi invecchiano velocemente, si liberano presto della loro patina dorata per farsi grigi, ed ospitare muffe nerastre che proliferano con il lavaggio dell’acqua piovana / questa pigmentazione che ricorda una qualche sorta di affumicatura rende il materiale particolarmente vivo, potrebbe diventare persino una speciale forma di ornamento superficiale – in un simile contesto invece finisce per accentuare inevitabilmente il lato tragico del deperimento, èd è la vecchiezza misera dei muri, non quella archeologica e preziosa, bensì quella più ordinaria e dismessa del quotidiano, che troppo assomiglia all’incuria per poter esser considerata in termini valorizzativi

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la pietra smangiata dal clima è fragile, friabile – mi è capitato di prendere tra le dita quelle rimanenze tondeggianti che sopravvivono al vuoto dell’erosione e di scoprirne la delicata inconsistenza, trovandomi in mano senza sforzo frammenti di muro, docili e inermi / non è un deperimento omogeneo, e le strutture sono costellate da un ricamo irregolare, difficilmente prevedibile, che infonde loro una vitalità particolare / alcuni conci sembrano sciolti, altri scavati meticolosamente, altri sopravvivono impassibili e intonsi – lo stesso accade in parte alla patinatura nerastra che non attacca le pietre in modo assoluto, ma che provoca una perdita inevitabile dei toni caldi, facendo somigliare il materiale a una leca millenaria o ad un cemento

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01.08

pensare a una serie di disegni più specificamente legati all’uso delle parole, ai dizionari, alla responsabilità tutta politica di garantire la comprensione dei pensieri (e dunque la loro trasmissione) / l’ignoranza è un alibi, nella maggioranza dei casi – un rifugio sicuro, lontano dall’incertezza del dubbio che assale il saggio e non l’incosciente

smontare i precetti significa legittimarne la fragile sfaccettatura, l’assenza di sicurezze

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30.07
potrei mai abituarmi a questo paesaggio precario, irrisolto, selvaggio a volte com’è selvaggia la mafia? sembra di abitare un luogo appena uscito dalla guerra, dove tutti si arrangiano e lo stato è un’entità remota che neppure si è capaci di pronunciare

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sono piuttosto arrabbiata e frustrata per le mie foto
non credo di essere riuscita ad andare oltre al folklore
ed invece c’era così tanto – così tanto da cogliere e da trasportare …

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in spiaggia - nella radio ascolto voci a me incomprensibili che arrivano da grecia e albania

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è una faccenda complicata spiegare perché non ho trovato il salento particolarmente riposante /
sarà per via della questione meridionale, un fatto di coscienza, o per le cicale, oppure per altre svariate forme di ridondanza che mi impedivano di riposare l’animo / mi sentivo sempre sotto l’effetto di qualche fenomeno stupefacente e mai completamente al sicuro, nonostante il continuo generoso apporto delle persone, i loro consigli, i favori, i racconti fantasiosi od a volte invece solidi come la storia /
inoltre, situazione spinosa, era come se mi trovassi all’estero, in un paese remoto – addirittura in un altro tempo!

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forse capita, di fronte a ciò che si impone nella sua forte definizione / credo sia proprio tale forza a spaventarmi, un contesto talmente connotato da risultare incorruttibile (che in questo caso specifico potrebbe voler dire anche irrimediabilmente corrotto? … )
immagino sia normale per i turisti non aver a che fare spesso con le istituzioni locali durante le loro vacanze, ma la sensazione lasciatami da queste settimane è stata quella di uno stato atrofico, ridotto a moncherino, dimenticato o peggio, tirato in causa come pura teoria, quale facciata di un mondo completamente altro, antagonista e sotterraneo /

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ci troviamo in un tipo di mondo dove l’esposizione personale è ancora impensabile, soprattutto da parte delle donne / non parlo certo di lecce, o delle famiglie borghesi dei centri maggiori / parlo del salento popolare, delle famiglie operaie o contadine, dei ceti medio-bassi che riempiono le campagne e abitano un territorio apparentemente urbanizzato ed in realtà contraddistinto dall’estetica del non finito, che incista la modernità dentro a contesti ancora molto antichi, non si capisce bene se per indolenza cronica o per cultura millenaria /

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chissà che rabbia per qualcuno, sentir parlare in questo modo un forestiero, uno che viene da lontano / ma le sensazioni provate sono state così forti da non poterle frenare / quanto c’è di pregiudizio in questo?
ho cercato di partire dal territorio, dagli occhi, dall’esperienza personale / ho cercato ogni giorno di rimuovere tutto quanto appreso in precedenza in merito al sud ed agli sgradevoli luoghi comuni che tanti danno per scontati  / … è un percorso plausibile?
ciò che tento di spiegare è leggermente diverso, è il senso di insicurezza e di disagio che sopraggiunge con il semplice atto del guardare, dal camminare attraverso le città e osservare le campagne costellate di ruderi e popolate di cani randagi – dall’ascolto diretto delle voci, dei racconti /
si tratta forse di paura della miseria o della diversità culturale?
sono rientrata davvero con sollievo al nord operoso e solo apparentemente immacolato?
io questo nord non l’ho mai difeso, nè comincio a difenderlo ora – ma sono spaventata da una società che non si espone e che non prende coscienza dei propri margini, degli errori e della condizione reale /
e questa italia così distante nelle sue diverse regioni, così vicendevolmente straniera e incondivisa, mi coglie impreparata / spostarsi sul territorio non è qualcosa di facile, non si tratta di uno svago, almeno per me – diventa impegno politico e risveglia la necessità di un dialogo più intenso ed aperto tra nord e sud
niente di folkloristico …

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parole: tahar ben jelloun

sono a galatina per vedere gli affreschi nella chiesa di santa caterina
mentre cammino mi imbatto in un portone che chiude un laboratorio le cui pareti sono tappezzate di vecchi attrezzi, fotografie ed ephemera / pare di entrare in un altro tempo / mentre scatto timidamente la prima dalla strada lui percepisce il suono dell’otturatore e mette fuori la testa per guardare, mi chiama e mi prende per mano guidandomi all’interno / non posso andarmene senza aver fotografato questo, e questo – dice – guardi, guardi …

paolo realizza tappetini e tappezzerie per autoveicoli – ma nel suo laboratorio, è evidente, potete trovare molto di più

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il paesaggio mi sbilancia continuamente verso poli opposti, l’estetica è contraddittoria, lacerata – il verso delle cicale è una costante di sottofondo e nei momenti di silenzio diventa qualsi assordante / la prima parola che trovo nel mio vocabolario, dopo pochi minuti di viaggio sul territorio, è ipnotico: l’esterno mi provoca una particolare forma di stordimento – sarà la stanchezza, o forse il caldo, o gli ulivi che si susseguono come sculture nella loro bellezza antica – tutto è ridondante nell’assenza di monotonia, si ripete con particolare violenza e non pacatamente, finisce per provocare una forma di partecipazione stupfacente / così va in crisi l’immagine di un salento dolce e morbido per cedere spazio a un’estetica forte e quasi insidiosa, dalle radici piantate nel medioriente /
la vegetazione è lussureggiante, le ultime estati sono state meno torride e le piante non sono ingiallite / ci sono rododendri, fichi, palme, capperi, agavi e grandi macchie di cactus che stanno buttando i primi frutti ancora acerbi / viaggiando in corriera vedo campi coltivati e contadini curvi a raccogliere meloncelle (menunceddhe) e pomodori / masserie da mille e una notte, muri a secco, furni dove dormono o dormivano gli agricoltori con la famiglia tutta durante la stagione più calda / le cicale mi stordiscono, le senti anche in spiaggia, acquattate nelle pineta alle mie spalle – devo tuffare la testa sott’acqua per fermare quel suono spettrale

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il set completo è su flickr (l’ultima foto invece è stata scattata nella cattedrale di otranto)