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tutto da fare e/o da rifare – ma finalmente senza di lui
dopo diciassette anni e quattro mandati, voglio pensare che si cambi rotta
che l’incubo di avere un simile capo del governo possa giungere alla fine

 

03112011 1941

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l’altra sera in un film italiano ho riascoltato una vecchia canzone di patti smith: è stato così fulmineo il senso di familiarità, l’emozione di qualcosa che fu parte di un periodo molto intenso della mia adolescenza e che ha avvolto strettamente i miei sogni giovanili / con questa canzone in sottofondo sognavo ingenua  e romantica di incontrare l’uomo che avrei amato per tutta la vita
e sognavo di andare verso la pianura – e oltre l’oceano

ci assomigliamo credo, con la ragazza della canzone
anche la sua androginia emana particolari bagliori di femminilità – e una certa magrezza, i capelli spettinati, le poesie, me la rendono affine, ma nel modo rigoroso e distante con cui ci sentiamo attratti da una musa / lei rimane la musa dell’altro mondo, emersa da qualche luminoso loft di manhattan e circondata di movimento in bianco e nero




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nascere e vivere qui invece non consente alcun riscatto, crescere nel cuore di una terra così chiusa su se stessa da togliere il respiro, soffocandoti con foglie di pannocchie e vecchi foulard usciti da qualche boutique costosa e conservatrice

qualcuno si veste come fossimo a parigi – pretenziosamente
seduta in un bar all’aperto ho intravisto buffi calzini sfoggiati con boriosità, abiti destrutturati, borse inimmaginabili ed altri amenicoli costosi e improbabili, paradossalmente immersi nel magma “tutto regolare” di questa cittadina tristemente gradevole, dove niente è fuori posto e molti sono smaccatamente gentili per una mera questione di educazione, per non corrugare la facciata
quei dettagli eccentrici dell’abbigliamento stridono ridicoli, privi di ragioni interne, espressione del portafoglio e di uno snobismo superficiale e irragionevole /

per poter essere autenticamente diversa la città dovrebbe esplodere dal di dentro, rinnegare se stessa – questa terra dovrebbe rivoltare le sue zolle così profondamente da inghiottire tutte le ville e le villette che costellano il territorio, dovrebbe veder inabissare i suoi negozi costosi e allineati, le sue rassegne culturali senza una sbavatura, le mostre d’arte giovanilmente pacchiane, e sterminare le centinaia di uomini brizzolati con le stesse giacche inglesi e le loro macchine ingombranti, che all’ora dell’aperitivo ridono disinvolti credendo di essere al centro del mondo

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05112011 0820

le strade allagate di genova – altri morti, auto distrutte, locali devastati
la natura completa quello che l’uomo ha cominciato, avendo sfidato avidamente la logica ambientale per decenni

ci sono stati dei morti bambini
penso a cosa sia, afferrare un piccolo corpo bambino che galleggia nell’acqua fangosa, penso a quella consistenza gonfia, a metà strada tra la mia stessa consistenza e quella di una bambola di gomma / quel corpo fino a poco prima era una bambina di pochi mesi che ora naviga nel fango come un fagotto – quello è il fango dell’incuria umana che trae le logiche conseguenze, perché da molto tempo la cosa più importante è strappare profitto, ricavare denaro da ogni situazione ed a qualsiasi condizione
le nostre città sono cresciute male, senza sapienza, hanno sovrapposto alle grandi strutture del passato un coacervo infrastrutturale privo di equilibrio che non si raccorda armoniosamente con il contesto e con il territorio, che non rispetta e non tiene conto degli elementi naturali / l’importante è espandersi, appropriarsi di ogni metro cubo possibile, strappare un profitto al mare, alla sabbia, al legno
ogni elemento naturale diventa uno strumento per arricchirsi, e per speculare
ogni legge è complice di questo apparente arricchimento che si traduce concretamente in un irreversibile depauperamento delle risorse

il territorio, l’abbiamo tradito, ed ora ci abbandona sempre più spesso alle inteperanze prive di proprozioni umane delgli elementi naturali / se la prendono nei denti i più fragili, gli innocenti ingenui che hanno creduto che le amministrazioni sapessero fare il loro lavoro, se la prendono nei denti i bambini morti, gli anziani che non riescono ad aggrapparsi ai pali della luce e scivolano deboli e lenti nel fango arrembante, se la prendono nei denti le famiglie che vedono andarsene in un fiome di melma i loro ricordi, le loro fotografie, le suppellettili, i vestiti e gli elettrodomestici, le banconote
per-fino la vita

insieme ai cadaveri emergono dall’acqua gli spettri degli errori commessi, le conseguenze tragiche dell’avidità umana, dell’ignoranza e dell’indifferenza – ma sicuramente i nostri politici e gli imprenditori faranno finta di non vederli e continueranno a pensare ai loro profitti, ad affermare che in italia i ristoranti sono pieni e tutto va bene

[gli altri italiani, nel frattempo, pensano al costume di halloween o alla partita di calcio …]

siamo arrivati al punto in cui, pur di non attaccare i benefici di chi si trova al comendo, pur di non infierire contro i grandi evasori fiscali, pur di non impegnarsi a una revisione seria delle spese della politica, pur di non applicare con determinazione tasse più alte per le attività produttive ecologicamente discutibili, pur di non tagliare drasticamente le spese militari, si ricorre alla dismissione dei beni dello stato, cedendoli a privati

il patrimonio italiano, già massacrato nel corso dell’ultimo ventennio, subirà la mazzata finale
un paese al macello


(B)
“Dovrebbe dimettersi, consentendo al Paese di provare a salvarsi, finché è in tempo. Ma non è un uomo di Stato, e il suo destino personale gli preme più del destino dell’Italia. Si rinchiude in un’agonia democristiana, da tardo impero, che potrà produrre un accordo con il minimo comun denominatore, ma non produrrà più né politica né governo.
L’Europa e i mercati giudicheranno questo vuoto di responsabilità. Intanto dobbiamo prendere atto che, mentre i governi cadono regolarmente quando una fase politica si esaurisce, solo i regimi non sanno finire.”
EZIO MAURO

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ultimamente la testa va un po’ dove vuole e nei giorni scorsi tentavo di capire come ci si potrebbe muovere politicamente (mi riferisco a una politica di lotta, non inerente ai partiti) in questa italia così malandata, anche alla luce dell’esperienza piuttosto avvilente della mobilitazione di settembre indetta dalla fiom-cgil /

[ nel frattempo – ancor più deprimente – si son susseguite due giornate di scioperi della scuola, disgiunti, venerdì i cobas, sabato la cgil: …ma dove è finito il limite oltre il quale i lavoratori perdono la pazienza e smettono di farsi prendere in giro dai sindacati?? ]

come ho accennato in un articolo precedente, il progetto “inédite” mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni sulla penosa situazione del nostro paese, considerazioni che forse non troveranno uno sbocco puntuale nella realtà ma che vorrei contribuissero a un’analisi disinibita degli strumenti di lotta e rivendicazione attualmente a disposizione dei cittadini – si tratta di aspetti a tratti marcatamente idealistici, ma non per questo secondari, che potrebbero a mio parere indicarci alcune direzioni plausibili /

mi pare evidente che servono strumenti di lotta diversi, più radicali
lo sciopero di una giornata probabilmente non è adatto a questi periodi di grave crisi del pensiero e della condivisione, ed una delle insidie principali è proprio la sua inefficacia, che va a demotivare progressivamente anche gli strati in precedenza più partecipativi che non ne percepiscono l’utilità concreta e vivono il disagio di rinunciare a un introito prezioso senza che tale contributo personale e finanziario vada a incidere abbastanza significativamente sulla realtà dei fatti / personalmente, al momento mi sento abbastanza presa in giro dai sindacati e dalle loro ridicole e inefficaci contrattazioni e per quanto segua da vicino gli orientamenti della cgil non mi trovo del tutto d’accordo nemmeno con le loro politiche recenti /

al contrario, seguo dal suo inzio con entusiasmo e interesse l’occupazione del teatro valle in roma, che sta offrendo un esempio bellissimo di come si possa convertire un momento difficile in una preziosa esperienza collettiva di arricchimento, i cui valori di fatto prescindono dai risultati possibili, essendo in ogni caso costruttivi in termini di sensibilizzazione politica e culturale / qualunque sia o sarà il destino del teatro e dei suoi lavoratori, tutte le persone impegnate nell’occupazione avranno goduto durante questo periodo di una eccezionale occasione culturale, sociale e naturalmente politica e questo rende il progetto un investimento collettivo in sè stesso /

immagino che una delle scelte possibili in questo momento in italia (se ne son visti numerosi focolai già l’anno scorso) sia quella di riprendersi ciò che ci appartiene – riappropriarsi degli spazi e dei beni pubblici significativamente coinvolti da politiche sbagliate – quegli spazi e quei beni che il malgoverno in atto da moltissimi anni sta convertendo e rovinando progressivamente per costituire una realtà a proprio uso e consumo, a discapito di un paese dove la qualità della vita e delle istituzioni (le due cose son strettamente legate) peggiora irrimediabilmente /
per riagganciarmi a quanto scritto in merito al progetto “inédite”, c’è bisogno di creare una lotta permanente e non di scioperare qualche ora o scendere in piazza una giornata per poi tornare alla propria vita di sempre / c’è bisogno di ribadire fisicamente il diritto a godere dei beni pubblici, piantonandoli al fine di evitarne la morte e la dismissione in favore degli interessi di qualche imprenditore compiacente, al fine di rendere la protesta evidente e capace di far sentire davvero i suoi effetti sui centri di potere / c’è bisogno di occupare le case cresciute sotto l’egida della speculazione, di trovare nuovi spazi per la gente, per i poveri e per quelli esclusi e puniti da questa manovra / non si tratta di cose che dobbiamo pagare, ci sono le tasse per questo, i contributi che abbiamo già pagato e che tuttora paghiamo per uno stato che dovrebbe essere al nostro servizio e fare il bene dei cittadini preservando la salute e la cultura del paese /
sappiamo quanto ciò sia lontano dalla realtà dei fatti

si rende probabilmente necessaria la formazione di comitati di occupazione (niente di militaresco, bensì aggregazioni spontanee e pacifiche di cittadini), gruppi di persone disposte a comunicare attraverso gli spazi fisici i loro diritti, assumendone il controllo fisico collettivamente, prima che vengano definitivamente posti al servizio di una politica sbagliata / fermare alcune attività (compiendo un’occupazione civile e rispettosa delle categorie indispensabili e necessarie) rappresenta una possibilità concreta di azione permanente dove ogni partecipante fornisce un contributo in funzione delle sue possibilità (occupare, cucinare, scrivere, insegnare, suonare, offrire manodopera e materiale) /
si tratterebbe di occupare luoghi strategici, non solo i tetti come accadde l’anno passato, ma i centri della cultura, scuole uffici e fabbriche, parcheggi, teatri e cinema, oppure andando a creare luoghi di aggregazione negli spazi commerciali incistando la lotta in aree scarsamente sensibili – od ancora, progettando sit-in e laboratori permanenti che trasmettano ai cittadini i contenuti e la necessità di un movimento di protesta attivo /

in tutto questo l’invenzione e la creatività svolgono un ruolo sociale imprescindibile, e la lotta per i diritti umani è di fatto molto vicina all’opera d’arte dal momento in cui contiene un valore intrinseco indipendente dal risultato finale, perché costituisce sempre un arricchimento se osservata in una prospettiva storica ed umana

i social network sono e sono stati importanti per la diffusione delle notizie e la trasmissione dei messaggi, per trovare aree di discussione teorica e riscontro su molti temi, ma come ci sta dimostrando il valle c’è bisogno di riassumere una relazione fisica con la lotta politica, una relazione attiva, compromettente e partecipativa /
lo sciopero quale forma efficace di rivendicazione probabilmente è morto
perché non proviamo a mettere il nostro corpo al servizio di una protesta più esplicita, permanente ed efficace? (e ritengo che stia nel permanente l’ingrediente fondamentale che attualmente manca allo sciopero – probabilmente se lo sciopero diventasse permanente allora condurrebbe a un cambiamento, anche se ovviamente non saprei dire in quale direzione) /
proviamo a riprenderci i quartieri e gli spazi pubblici ed a riappropriarci di una politica che non è mai stata realmente al servizio dei cittadini da moltissimi anni a questa parte / non aspettiamoci che i partiti e i sindacati si occupino di risolvere questa situazione, i loro rimedi sono degli inutili palliativi e non cambiano lo stato delle cose, anzi, il più delle volte rivelano forme di pericolosa connivenza /
questa dovrebbe essere una lotta di cittadini che si mobilitano per il bene comune, senza mediazione partitica o sindacale, le istituzioni possono e dovrebbero in ogni caso partecipare, ma senza condizionare una protesta che deve mantenersi pura, espressione di una necessità che si estende all’intero paese, senza diventare appannaggio di una specifica parte politica /
una lotta per ripristinare il bene comune e garantirne la sopravvivenza e la longevità

se volete fate girare questo messaggio, provate a dare una chance a riflessioni che per quanto utopistiche contengono dei barlumi di fattibilità e degli spunti di cambiamento / date spazio alla possibilità di cambiare le cose e soprattutto non abbiate paura di essere politici nelle vostre considerazioni e ancor più nelle vostre azioni, perché politica è tutto ciò che riguarda la polis, le persone intese in quanto collettività, e non espressione degli interessi particolari di uno o dell’altro partito

invece di sostituire l’arte alla vita, gli architetti urbani dovrebbero tornare a una strategia che nobiliti sia l’arte, sia la vita, e che valga a illuminare e a chiarire la vita, a spiegarcene i significati e l’ordine: nel caso in questione, ad una strategia che valga ad illuminare, chiarire e spiegare l’ordine urbano / jane jacobs



I
quando arrivo, il tendone dove tra pochi minuti si svolgerà l’incontro con vittorio gregotti è moderatamente affollato – mi guardo in giro e mi domando dove siano gli architetti: poi guardo meglio e realizzo con un guizzo di disperazione che ne sono circondata, che annego in una platea di laureati in architettura vestiti come camerieri, play-boy a riposo che soffrono di nostalgia o agenti di commercio pronti per suonare il campanello e venderti un’aspirapolvere / 

addio stile / bonjour tristesse

 


 

II
quanto sopra, ancor prima che vittorio gregotti dia inizio alla dissertazione sulla città pubblica (forzatamente o fortunosamente solitaria, dato che l’interlocutore è assente) / mi aspetto un discorso politico, ed in effetti quella che viene inizialmente posta come una questione estetica conseguente allo svuotamento dei contenuti teoretici e degli obiettivi programmatici inerenti la disciplina architettonica, svela progressivamente la drammatica condizione del rapporto non risolto tra oggetti architettonici (il più delle volte mediocri), abbandonati a se stessi, a galleggiare in un magma spaziale che è appannaggio di speculazioni e rendite private, un territorio post urbano intenzionalmente deregolarizzato in modo da massimizzare tale processo di barbarie edilizia e la proliferazione di scenari ormai tristemente familiari, caratterizzati dal profilo grossolano di qualche centro commerciale o da blocchi edilizi seriali privati di qualsiasi minima forma di intuizione progettuale / (l’immagine qui sopra parla da sola)
 

quello che sconcerta è l’indifferenza generale e la connivenza istituzionale che circondano tali scenari, l’indifferenza di cittadini pur deprivati del diritto al paesaggio e alla qualità urbana, ma anche degli stessi architetti, che di fronte a certe commesse di dubbio valore non girerebbero tanto facilmente la testa dall’altra parte, ipnotizzati da un’ulteriore occasione di clonare matericamente il proprio ego di calcestruzzo /

 


III
così – l’altro giorno gregotti parlava dello spazio tra le case, uno spazio di cui nessuno si occupa a livello politico affinchè possa rimanere il più a lungo possibile mercè della speculazione e dell’edificazione indiscriminata di grandi e piccoli oggetti di design tendenzioso, che praticano una mimesi superficiale con le mode del proprio tempo, mettendo in atto un rispecchiamento senza architettura /
 

lo spazio tra le case e quello tra le cose
quello tra le cose mie e di altri, quello che valica il confine personale, del giardino o del garage, lo spazio che diventa comune e poi solo di altri / c’è bisogno di fornire un linguaggio alle relazioni spaziali e soprattutto di legiferare in maniera intelligente e onesta – mi viene da dire che è l’urbanesimo la risposta, non l’architettura – e l’urbanesimo è principalmente una questione politica /
gli architetti sfruttano questa situazione di deregulation e di assenza di un riferimento teoretico disciplinare a loro uso e consumo / nessuno è in grado di sindacare, e il confronto con la mediocrità è sempre rassicurante per chi è mediocre di suo / inoltre, i professionisti dell’edilizia sono degli edonisti, da troppo tempo continuano ad occuparsi delle singole villette, delle gallerie alla moda, di rendere grazioso il negozio all’angolo, di inventare una bella scaffalatura /
questo sanno fare, questo gli è comodo fare e della politica gli importa solo che procuri qualche commesa in più e che il loro progetto passi in commissione edilizia / non lottano, non si arrabbiano – pensano a sbarcare il lunario ed a trovare qualche nuovo cliente (il ristorantino in periferia, lo chalet per le vacanze, la risistemazione di un vecchio parco) che lusinghi il loro ego sempre affamato /
… e questo sta bene alla politica, cui del resto della qualità dell’architettura e del paesaggio non è mai importato granchè, preferendo di gran lunga il chiasso delle archistar o il progettino frettoloso di qualche geometra compiacente per realizzare qualche affare speculativo che necessita di una firma /

insomma, possiamo dirlo senza temere di esagerare: stanti così le cose gli architetti non alterano l’esistente a livello sostanziale e dunque sono inutili – anzi, il più delle volte sono dannosi, perché utilizzano la materia come se fosse la più immateriale ed effimera delle sostanze, come se fosse un gas tossico che invade i lotti urbani addormentandone i fermenti, o la tintura di un parrucchiere che dopo qualche lavaggio restituisce ai capelli il tono orginale

invece è necessario trovare modelli efficaci – che lavorino su un livello altro rispetto a quello individuale / perchè fare bene le proprie cose (e le proprie case) non basta più, c’è bisogno di inventare un tessuto connettivo e di strutturarlo / c’è bisogno di chiedere alla politica che faccia il suo lavoro, che si occupi del territorio, delle case e dello spazio tra le case, ma anche di cercare risposte teoretiche che riportino la disciplina a una condizione condivisa

 


 

 

IV
la gran parte delle questioni trattate dal “vecchio professore” (*) durante l’incontro si trova condensata nel primo capitolo di “contro la fine dell’architettura” (da cui ho prelevato tutte le citazioni di questo post) / se andate a leggere, a un certo punto inciamperete nelle parole magiche: senso di necessità della pratica artistica
sembra così semplice a leggerle sulla carta! e pare che le soluzioni a tutti i problemi siano condensate in quella piccola frase / se ci interrogassimo con costanza sulla necessità di ogni azione professionale, di ogni atto pseudo-artistico od architettonico, sulla necessità di un acquisto così come di una scelta di vita, e soprattutto, se tale domanda fosse il metro di giudizio in merito all’esistente, forse potremmo sviluppare la coscienza critica necessaria a ristabilire un ordine delle cose, premessa a qualsiasi forma di civiltà e di vitalità professionale e artistica /
a un ordine potremo successivamente opporre qualche forma di disordine, sarà lecito e auspicabile trasgredirlo e metterlo in discussione, rifondarlo – ma là dove non c’è alcuna possibilità di avere dei riferimenti chiari, qualsiasi azione diventa aleatoria, soggettiva, effimera – appannaggio delle forze dominanti, che sappiamo essere quelle del mercato e non certo quelle mirate alla salvaguardia della civiltà e della cultura / 

sono le domande che potremmo porre a noi stessi (prima ancora che all’esterno) a conformare il progresso, è la nostra capacità di mettere in atto ragionamenti critici, migliorando le nostre azioni per poi pretendere il miglioramento di uno stato comune
ma quali strade potrebbe seguire la cultura nell’impostare un discorso critico, quali dovrebbero essere i punti di riferimento di un qualsiasi ricominciamento? giustamente a un certo punto gregotti, parlando della disciplina architettonica, oppone al rispecchiamento effimero nelle mode del momento, lo studio critico della storia e delle esperienze precedenti /
conoscere gli antefatti è forse l’unico modo attualmente a disposizione per intendere e modificare il presente / guardare per esempio alle tante forme di civiltà dell’italia del dopo-guerra, prendere spunto da certi fuochi culturalli che furono sotterrati con la presa di potere di una classe politica che aveva intravisto in tali fuochi una fonte di autonomia intellettuale dei cittadini, una fonte di bellezza condivisa e non la rendita più o meno occulta di pochi fortunati /

abbiamo a suo tempo votato per una democrazia e con il passare del tempo ci siamo illusi o abbiamo deciso che tale democrazia, anziché rappresentare un’opportunità di crescita a tutto tondo, fosse impostata unicamente sul raggiungimento di un benessere materiale, dimenticando come tale benessere vada mantenuto e sostenuto attraverso meccanismi culturali che garantiscano la permanenza delle regole (anche quelle più elementari) della civiltà e del rispetto

 

(*) detto in senso bonario e con il massimo rispetto per quella sua età così ricca di esperienza

immagini:

  1. vittorio gregotti a pordenone legge
  2. allen jones – chair 1969
  3. centro commerciale euroma 2
  4. francesco rosi – le mani sulla città 1963
  5. bill owens – suburbia 1972

 

do you read me?
do you hear me?

 

in questi giorni mi domandavo per l’ennesima volta se il lavoro creativo possa essere impermeabile a tal punto rispetto alle cose che succedono e che modificano significativamente la vita di tante persone / mi chiedo anche se i blog più creativi possano rimanere muti e impassibili, continuando a pubblicare piacevoli oggetti e spunti per abbellire le nostre vite senza usare il proprio successo come strumento di miglioramento sostanziale /
la cultura è sempre politica e mai indifferente
ma dov’è la cultura in tutto questo?
ciò che sconcerta è il flusso impassibile, che non traduce alcuna minima variazione rispetto a quello che succede fuori – nessun sussulto, turbamento, nessuna paura tradotta in pensieri o immagini / solo piacevoli foto di belle cene, tavolini graziosi, fiori e gradevoli segni che coprono il mondo come una tovaglia
vetrina dei propri lavori e della propria immagine per venderli meglio
impermeabile



these days I wondered if the most of creative work can be so impermeable to the point that things that happen and that change lives of many people are so transparent and irrelevant / I also wonder if the more creative and read blogs can remain silent and impassive, continuing to publish pleasant objects and ideas to beautify our lives, whitout using their success also to better world substantially through their communication /
culture is always political and never indifferent
… but where is culture in all of this?
what is disconcerting is the impassive flow, that does not translate any variation of tones and contents compared to what happens outside – no gasp, no anxiety, no fear translated into thoughts or images / just pretty pictures of fine dinings, nice tables, nice flowers and pleasant signs that cover the world as a tablecloth
just a window of our works and ourselves to sell them more

are you waterproof?

survey:
do you read me sometimes?
do you translate my words – sometimes?
… or you just look at the pictures?

 





music: kimmo pohjonen, samuli kosminen & kronos quartet – särmä
parole: don milani
ph: muliebre in paramenti ufficiali
parole: pasolini
 

 

 

 

la tv non puzza
il web non ha odore
e b non farnetica

di primo acchito potrebbe sembrare una delle tante stupidaggini bislacche a cui ci ha abituati nel tempo, l’affermazione ad opera del premier che i politici di sinistra non si lavano, uscita in calce a un discorso che mirava a dipingerli come ostacolatori di libertà e democrazia, ed invece non ho voglia di sorvolare, perché quell’affermazione così puntiforme e apparentemente fuori contesto riesce a toccare un nervo scoperto, un’idiosincrasia mai apertamente dichiarata inerente le abitudini di vita che soprattutto a partire dal dopoguerra ci hanno condotti verso un’esistenza senza odori (o quasi) ed a un meticoloso controllo che fa dell’igiene uno dei gangli fondamentali intorno a cui ruota la nostra quotidianità /
come afferma umberto eco nel suo ultimo libro (stralcio pubblicato ieri su repubblica) il nemico sempre puzza …, e l’odore sgradevole ha a che fare con la diversità, con la mancata accettazione dell’altro che è vagamente simile a noi ma che non coincide a sufficienza / è un’idea così vicina all’immagine del contagio, quasi che un odore potesse trasmetterci il germe della differenza e della miseria, come si trattasse di una malattia / tale aspetto è evidente nel momento in cui consideriamo la questione razziale e le discriminazioni che ne derivano, perché la pelle diversa dalla nostra ha spesso un odore che non ri-conosciamo e che mette alla prova il nostro ecosistema introducendo elementi destabilizzanti che accettiamo con fatica /
proprio per questa stessa ragione probabilmente, l’igiene meticolosa e un’esagerata cura del sé celano spesso l’incapacità di vivere con serenità e apertura la questione delle differenze, soprattutto in una società diventata esponenzialmente multietnica facendo del confronto con l’estraneo un elemento che non possiamo evitare o rimuovere del tutto / ecco che allora pulirsi profumarsi disinfettarsi rappresenta una forma di antidoto all’altro, un tentativo di rimuovere il germe sconosciuto che deriva dalla prossimità dello straniero, di ciò che non è familiare o che non conosciamo a sufficienza / quindi più o meno consapevolmente associamo l’idea di sporco a una distanza morale, a una scala di valore che ci vede al centro di un ecosistema culturale che consideriamo dominante, e questo tipo di associazione lavora a un livello che difficilmente possiamo controllare e percepire con il nostro lato più razionale /
la parola odore non è più associabile con naturalezza a uno dei tanti aspetti della nostra fisiologia, per esempio ad un’intensa attività fisica o alle caratteristiche dell’epidermide, ma richiama piuttosto la scarsa igiene, lo sporco recidivo e un’insufficiente cura della propria persona, che per un delirio autocentrico associamo istantaneamente a una carenza culturale / con sistematicià quasi compulsiva facciamo attenzione a rimuovere ogni memoria del corpo quale macchina imperfetta e ci impegnamo a perseguire una realtà asettica e impersonale che ci protegga dall’onere della differenza e della decadenza insita nelle cose di natura (manca l’accettazione dell’invecchiamento nella sua complessità), così come dall’assunzione della responsabilità di dialogare con lo straniero o con chi consideriamo erroneamente inferiore /
per queste ragioni (tra le altre) le parole del premier mi paiono particolarmente insidiose, perché associare la sinistra all’idea di sporco va a far leva su un tabù profondo e stabilizzato, conducendo l’elettore a reagire in maniera non del tutto consapevole a un fastidio di matrice culturale con cui si confronta quotidianamente a molti livelli diversi /
lo sporco è un tabù da cui b deve liberarsi e smarcarsi con urgenza (pensiamo solo alla questione dei rifiuti in campania ma anche alla dubbia moralità che macchia la sua carica istituzionale): tenta di farlo capovolgendo la questione e dissociandosi verbalmente da qualsiasi forma di coinvolgimento e compromissione in affari variamente sporchi, al contrario riversando sull’avversario politico le proprie macchie, in un abile gioco dialettico di specchiamento /
qualcuno però dovrebbe spiegare al nostro premier, esponente di punta di una società batteriologicamente pura, che certe sporcizie anche sfregando forte non vengono via, e che un’abbondanza di lavaggi e profumi non garantisce affatto la pulizia della coscienza e una purezza d’intenti /

cordiali saluti

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