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| ogni giorno, ancora per poche settimane, arrivo presto la mattina e attraverso campi strade e piazze di questa città stellare / non sempre, ma capita che prenda il treno, ed allora una volta scesa, dalla stazione fiancheggio campi di grano e le pendenze soffici dei bastioni, imbocco la porta orientale e cammino per qualche centinaio di metri lungo le mura, sul retro di alcuni blocchi residenziali / la scuola sta in fondo, dopo l’ultima polveriera, seminascosta dalla vegetazione estiva / altre volte capita di camminare fino alla piazza in cerca di un caffè, e di sedermi per qualche minuto a osservare la città che si sveglia e il sole radente che ancora non irrita lo sguardo / la raggera delle strade conferisce allo spazio un’attitudine dispersiva, le altezze dissipate in una fuga ottica verso l’esterno che nemmeno la cerchia di mura riesce ad intralciare, e questa sensazione mi pare possieda virtù di sedazione, come se ogni cosa subisse una più o meno sensibile dilatazione, compreso il tempo / tutto sembra più largo e spazioso, ma si percorre con sorprendente facilità, in un gioco di lenti invisibili che alterano le distanze / lo spazio rado disperde le voci, i rumori, le musiche / le strade secondarie sono spesso deserte / a mezzogiorno non ci sono ombre, le cimase esigue proiettano giusto una fascia sottile di scuro che nemmeno sfiora le ultime finestre, là in alto / ed allora ogni cosa si dilata al suo massimo in un miracolo lenticolare …
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| la città / conegliano è una città impostata su piacevoli dislivelli con un centro storico antico e prezioso uno strano modo di affrontare le pendenze: i portici si affacciano su piani inclinati, così la strada assume l’aspetto vago di un canale senz’acqua, forse di memoria veneziana in mostra / il mercato / + l’ultima foto, scattata in una piccola chiesa lungo il corso |
una presenza poco appariscente – di ascendenza veneziana
ci passi a lato ogni giorno e non ti accorgi di niente
c’è perfino un grande squarcio nella rete e i ragazzi entrano a giocare
i fiori invece stavano all’uscita della stazione
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(parole: màrio cesariny)
decido di non muovermi, di lasciarmi trasportare
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mentre vado verso il caffè, la piazza rivela alcune bancarelle quasi soffocate dal bianco
in un mucchio di vecchi stracci ho scovato un soprabito blu di gabardina e una camicia celeste
le cose – vissute da altri, toccate da altri, sporcate da altri – mi chiamano con più forza
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poi essere così
essere come quella casa lì
con le pareti sostituite da lievi azzurri fogli di plastica che si gonfiano di correnti d’aria,
teli fermati in modo perentorio e drammatico da vecchie assi assemblate stocasticamente
che sconvolgimento, essere così!
plastica legno vecchi intonaci – travi a vista puntelli e calcinacci
intorno una lamiera che già comincia a imbrunire di ruggine e segnalatori catarifrangenti
una casa priva di sé, che conserva i contorni e le aderenze della memoria
essere così – squarciata ed esposta
malamente suturata, slabbrata, accerchiata
un vuoto urbano – pieno zeppo di dettagli





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la città è una stella
ci si arriva dopo aver viaggiato in una campagna gonfia di erba nuova
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| un paese e un’epoca che non rispettano il lavoro dei bravi architetti (nemmeno li riconoscono – preferiscono in genere affidarsi a qualche vago professionista privo di talento) amano l’opera pacchiana e vistosa, la modernità vetusta e ridicolmente esibita amano il paesaggio patetico ma non ne sono consapevoli pensano di coprirsi di gloria e invece ci ricoprono di merda
diario / i laboratori accesi risaltavano nel buio, come astronavi abbandonate
il flop della maddalena / oltre che brutti, anche inutili |




