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do you read me?
do you hear me?

 

in questi giorni mi domandavo per l’ennesima volta se il lavoro creativo possa essere impermeabile a tal punto rispetto alle cose che succedono e che modificano significativamente la vita di tante persone / mi chiedo anche se i blog più creativi possano rimanere muti e impassibili, continuando a pubblicare piacevoli oggetti e spunti per abbellire le nostre vite senza usare il proprio successo come strumento di miglioramento sostanziale /
la cultura è sempre politica e mai indifferente
ma dov’è la cultura in tutto questo?
ciò che sconcerta è il flusso impassibile, che non traduce alcuna minima variazione rispetto a quello che succede fuori – nessun sussulto, turbamento, nessuna paura tradotta in pensieri o immagini / solo piacevoli foto di belle cene, tavolini graziosi, fiori e gradevoli segni che coprono il mondo come una tovaglia
vetrina dei propri lavori e della propria immagine per venderli meglio
impermeabile



these days I wondered if the most of creative work can be so impermeable to the point that things that happen and that change lives of many people are so transparent and irrelevant / I also wonder if the more creative and read blogs can remain silent and impassive, continuing to publish pleasant objects and ideas to beautify our lives, whitout using their success also to better world substantially through their communication /
culture is always political and never indifferent
… but where is culture in all of this?
what is disconcerting is the impassive flow, that does not translate any variation of tones and contents compared to what happens outside – no gasp, no anxiety, no fear translated into thoughts or images / just pretty pictures of fine dinings, nice tables, nice flowers and pleasant signs that cover the world as a tablecloth
just a window of our works and ourselves to sell them more

are you waterproof?

survey:
do you read me sometimes?
do you translate my words – sometimes?
… or you just look at the pictures?

 





music: kimmo pohjonen, samuli kosminen & kronos quartet – särmä
parole: don milani
ph: muliebre in paramenti ufficiali
parole: pasolini
 

 

 

 




… non l’unica

i colori sono assai ma ben presto li saprai
al visionario fino al 31 ottobre un’installazione fotografica di claudia barberi, giovane(?) architetto udinese
sulla parete della biglietteria (ormai così carica di ricordi) sono accatastati dei cartelli montati su paletti
ciascun cartello alloggia una foto stampata su carta da fotocopie
il catalogo invece, è una striscia che ricorda i campionari pantone mentre il libro delle firme un taccuino cui sono collegati con nastri di raso dei pennarelli
l’ultimo giorno sarà possibile portare a casa la foto preferita (senza litigare, I hope)

le singole immagini non hanno in verità niente di particolare, sembrano quelle in cui ci si imbatte  muovendoci nell’incessante fotoflusso della blogosfera e di cui tanto mi lamento quotidianamente, ma l’effetto complessivo è al contrario inedito ed interessante / una installazione bulk da cui traspare la cura nella  collocazione delle foto al fine di creare sezioni cromatiche, così che l’assemblaggio regala l’effetto di un arcobaleno di carta / anche la scelta dei cartelli come supporto (simili a quelli che si piantano nel terreno, per intenderci) offre lo spunto per figurarci una staccionata colorata, un margine oltre il quale esiste, persiste e pullula l’universo di immagini indifferenti pubblicate da milioni di utenze

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[ scatti dal cellulare ]




ieri sono stata al cinema per vedere urlo e sapevo sin da principio che non sarebbe stata una visione entusiasmante perché conosco ed amo troppo le strampalate e commoventi storie dei beatniks per potermi accontentare
eppure, essendo il film diretto da due documentaristi, mi sarei aspettata qualcosa di meno televisivo e patinato
il periodo beat fu contraddistinto da una forte inclinazione allo sperimentalismo frugale, quotidiano, dall’invenzione spicciola quanto ininterrotta e dalla difficile e inebriante rottura delle regole perbeniste dell’america postbellica
tutto ciò arrivò da noi più tardi grazie al binomio pivano-feltrinelli e venne filtrato e idealizzato dal decoroso provincialismo italiano, mentre per farsi un’idea più obiettiva sull’estetica beatnik sarebbe piuttosto indicata la visione di pull my daisy di robert frank (1958) , per intendere quella particolare, meravigliosa, malinconica e sfuggente inconsistenza che contraddiceva l’ambiente beat:  ciò che realmente manca nel film visto ieri e che difficilmente si può ottenere se non rinunciando alle finiture leccate ed alle postproduzioni maniacali
infatti, se da un lato vige una rigorosa filologia, dall’altro il film la rinnega puntualmente per adattarsi ad esigenze di maggiore godibilità cinematografica, perdendo così fedeltà narrativa, profondità di campo e credibilità –
non mi sarebbe dispiaciuta la scelta di accompagnare alcuni brani del poema con le sfolgoranti animazioni ispirate ad illuminated poems e mirabilmente disegnate dallo stesso eric drooker (ma integralmente realizzate in tailandia, ndr) se tali animazioni non fossero state così esplicitamente contemporanee, impeccabili e computerizzate – e mi sarei aspettata che il be-bop fosse la reale colonna sonora della storia, senza il ricorso accondiscendente a musiche di compromesso, più recenti e non contestuali
inoltre suggerisco caldamente la visione in lingua originale, auspicandomi che le letture da ginsberg siano meno raccapriccianti [ come scritto sugli spietati a chiosa di un’ottima recensione: doppiaggio inopportuno fino al masochismo ] :-)

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fotografie apparentemente semplici sottendono una ricerca  sulla visione incentrata soprattutto sul riflesso e la deriva ottica

il suo flickr
il suo tumblr



immagino che ricominciando a pubblicare disegni e lavori grafici il blog ritornerà almeno in parte ai ritmi di frequentazione precedenti /
questo a me interessa poco
quello che spero è che i vestiti cambino, che muoiano e diventino un’altra cosa
perchè non esprimono che minimamente quello che provo e che popola le mie visioni

molte persone pensano a un vezzo modaiolo, la gran parte vogliono piacevolezza
mi chiedono di pubblicarli su riviste di moda e di tendenza / a volte accetto, altre no

realizzare questi disegni dovrebbe diventare un modo per sbarcare il lunario?
dovrei fare ciò che mi riesce facile per guadagnare denaro e tralasciare i pensieri più importanti?

poi c’è la questione della definizione formale, dello stile
a tratti mi sembra di non esistere, di non essere riconoscibile, di non possedere un’identità che si esprima chiaramente attraverso il lavoro grafico / sopravvive più o meno latente la sensazione di essere costituita da parti altrui, da stili altri che si mescolano indefinitamente

non che questa cosa mi dispiaccia
in fondo è la sintesi del mio tempo, una costante ininterrotta contaminazione

…ma l’utilità?
si è perso il senso di necessità del lavoro, il fare generosamente e non in modo frivolo /
questo mi detiene e non mi consente di lavorare con piacere: l’idea di non realizzare qualcosa che sia utile, l’idea di produrre cosmetici
non è il momento, per i cosmetici – le nostre vite ne sono già piene, sature
ci vuole sostanza, il gesto dovrebbe tornare ad essere politico
il mio pensiero, da quando mi alzo a quando vado a dormire, è costantemente un pensiero politico e non riesco a liberarmi di una serie di domande e di una grande quantità di pesi e di dolori

perchè allora il lavoro visivo deve rappresentare l’eccezione, perchè questa frivola via di fuga?

ne scrivono da varie parti, con rammarico e dispiacere
ed invece qui – niente
niente / nonostante il talento, le sue deliranti divagazioni e le strutture che con il corpo intrattenevano sempre relazioni inedite ed ambigue (si è trattato dell’abito e della sua negazione, dissoluzione dell’idea di moda in pura visione, comunque sia inequivocabilmente commerciale) / un grande talento dunque, ma come scrivevo poco fa in un commento, sostanzialmente irrilevante e carico di anacronismi

c’è bisogno di questo? oppure il genio consiste nell’operare una rivoluzione che conduca ad altri livelli di conoscenza e soprattutto di consapevolezza?
lo smarrimento creativo dovrebbe piuttosto coinvolgere altri ambiti, provocare cedimenti nelle strutture culturali e far vacillare un sistema di cose ormai fondato unicamente sulla circolazione del denaro e sulla consuzione continua che si rigenera e si distrugge in un processo visionario quanto sterile

questa visione individuale così ben interpretata da mcqueen non ha caso si conclude con una morte altrettanto individuale, che nulla spartisce con il mondo e che nulla di sostanziale cambia del mondo e delle sue verità urgenti
pare non si avverta quasi più la necessità di una relazione intima con il vero ma si abbia invece un bisogno continuo di fagocitare cambiamenti che coinvolgono il piano puro e incontaminato della visione spettacolare
questa concezione del bello quasi rinascimentale si rivela anacronistica e separata in un mondo che del rinascimento non conserva altro che un vago ricordo, probabilmente finanziario / rimane appannaggio di persone che vivono e proliferano all’interno di circuiti specifici, moda arte spettacolo, e che non operano alcuna forma di contaminazione o compromesso in grado di corrodere le certezze formali dei vari prodotti
la vanitas contemporanea è dunque spogliata della necessità di realizzarsi attraverso la concinnitas (intesa come conciliazione degli opposti, completezza, equilibrio tra le parti, ma anche dialogo con il contesto)
tutto rimane immaturamente sospeso in un limbo dove anche l’abito è spesso immateriale, appena intravisto, o si rivela nel paradosso delle forme, nella negazione crudele delle funzioni, come si vuole all’apice del lusso

allora lo dico, qui adesso oggi – la parola lusso mi disgusta