ho pensato a lungo alle sensazioni che mi ha lasciato la giornata dello sciopero, l’ennesimo scontro con un tasso di partecipazione e coinvolgimento molto scarso, le discussioni con elettori pericolosamente imbrigliati in vecchi slogan e vetuste abitudini, di cui però sempre mi colpisce la pervicace perseveranza, la capacità di non demordere, nella lotta come nelle proprie più ottuse convinzioni / una perseveranza “buona e mala” dunque, a volte troppo simile a quella di un animale che tira il suo giogo senza girare la testa, altre carica di innocenza e generosità /

ho visto ed ascoltato anche persone attive e re-attive, ricche di esperienze, coerenti, appassionate: che emozione! di fronte a loro i miei dubbi tremolanti e le titubanze di comodo si rivelano talmente astratti e poco significativi ai fini di una lotta sindacale e politica! solo capricciosi contorcimenti dell’intelletto che cerca le sue risposte borghesi prima ancora che quelle di tutti: timide scoregge, le definirebbe qualcuno /
il mio è un intelletto distratto, incerto, fragile / si lancia nella mischia e poi scappa, soffre e poi dimentica / un intelletto pieno di difetti che spalleggia un animo i cui slanci sbiadiscono progressivamente nell’assenza di riscontri plausibili /

ma sono stati soprattutto alcuni commenti sul blog a provocare in me una forma di acuta e progressiva in-sofferenza, perché le mie aspettative nei confronti delle risorse della rete sono ancora irragionevolmente elevate /
il fatto che non siamo più nemmeno capaci di rispondere alle domande con disciplina e con minimo impegno mi disturba, mi mette ansia e soprattutto mi rattrista / anche sul web certi rapporti sono mondani come gli aperitivi in centro – le frasi si interrompono a metà, senza la concentrazione necessaria, tutto sommato senza voglia, tanto per essere presenti – in un modo che non si può intendere e decodificare decentemente – un modo che non consente la conversazione, la costruzione, la messa in discussione /
è la supremazia incontrastata dell’effimero – la stessa cosa del tenersi lontani da quelle piazze arrabbiate (perché puzzano di vecchio e di fuori moda, o perché non finiscono sulle pagine delle riviste di tendenza e design) e scegliere piuttosto un teatro, una galleria in centro o un locale piacevole dove incontrare persone affini davanti a un bicchiere di buon vino senza l’obbligo o la responsabilità di far quadrare alcun cerchio comune, senza dover affrontare alcuna scabrosa questione popolare /

in fondo anche l’architettura non è più una missione sociale, si è dissociata progressivamente da quei presupposti di utilità e sostanzialità che in genere contraddistinguono il perseguimento di un bene comune, duraturo, e che garantisca un miglioramento sociale e il raggiungimento di un traguardo condiviso con altri /
l’architettura nella maggior parte dei casi deve far pensare a qualcosa di nitido e definito, senza macchie – non si può confrontare volentieri con un terreno di incertezza culturale e con priorità che non tengono conto dell’aspetto formale perché non previsto dalle risorse in campo – a meno che non si tratti di una com-missione in qualche posto esotico, per riciclare vecchi bidoni in un progetto socialmente creativo ed apparentemente utile, o coinvolgere gli abitanti di villaggi pittoreschi in una forma inconsapevole di perseverante colonialismo – (e lo dico con alle spalle un master in pianificazione per paesi in via di sviluppo: so bene quanto sia diverso il confronto con le scomodità sociali, se queste si presentano in patria e perdono il profumo dei tropici) / è di moda farlo in africa o in america latina, di occuparsi dei disagi di chi ha di meno – qui da noi significa sporcarsi le mani con una politica di base, dove non girano soldi, dove il volontariato non è comodo, rapido e indolore come versare un’assegno a qualche fondazione per poi tornare ai progettini d’autore /
meglio ancora mettersi direttamente in studio una bella poltrona di stracci dei campana, che del brasile raccontano gli aspetti pittorescamente colorati in un piacevole melange finto povero, e non quelli che hanno le unghie sporche di nero, pensando di aver compiuto una buona azione e di aver contribuito a fortificare un’economia fragile /

così da alcuni giorni si è acutizzato questo malessere dell’animo, e il senso di colpa per le incongruenze che separano il mio lavoro da quello che scrivo, che scindono la mia vita privata da quello che vedo intorno / il malessere di non riuscire a spiegarmi, quantomeno, se in risposta a immagini che pensavo parlassero da sole mi si chiede di pubblicare qualcosa di delicato, magari un autoritratto o un’interpretazione più accattivante, innovativa e formalmente rifinita della lotta di piazza /

allora mi domando: ha davvero un aspetto intimista questa lotta? possiede qualche aspetto formale significativo una notizia come quella di stamattina, dell’operaio disoccupato che dopo un anno senza impiego si toglie la vita? personalmente l’unica sensazione limpida è il disgusto che provo nei confronti di chi gira la testa dall’altra parte, ed è una sensazione tutt’altro che delicata – e poi questa amarezza diffusa, che tinteggia gli oggetti di casa, il senso di colpa per non trovare uno sbocco possibile e utile a questi pensieri, che rimangono di carta e si polverizzano entro il perimetro fragile e insignificante del blog /

ecco nero su bianco le giornate recenti, dove altre cose e altri segni si mescolano senza esito a queste riflessioni, dove la musica accompagna un malessere che non se ne va mai del tutto che poi è il mio malessere di precaria senza riferimenti, atterrata di mala voglia in una città di provincia che guarda con annoiata indifferenza alle lotte dei suoi operai /

buon tramonto a tutti

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