vago in cerca della fermata saf, dispersa nella semi-oscurità incerta di un sobborgo dell’area periurbana, tra autorimesse, capannoni e qualche tragica villetta frutto dell’immaginazione spoglia di un anonimo geometra di provincia – cancelli cemento e accenni di marciapiedi in ghiaia sul ciglio di percorsi sconnessi – all’improvviso ecco un grazioso ristorantino che vende prodotti naturali, tè e cibi macrobiotici, seminascosto in fondo a uno spiazzo, tra un’officina e un condominio (allora c’è vita, penso) – poi altri cancelli, villette, sprazzi minimi di campagna come buchi neri nel tramonto che muore
la corriera mi raccoglie fortunosamente, assai distante dal luogo prestabilito

anche l’interno dell’automezzo è in penombra, c’è una luce che non consente di leggere ma che concilia una particolare forma di abbandono taciturno, sollecitata dalla stanchezza di fine giorno / infilo le cuffie, mi appoggio allo schienale di plastica e guardo il nulla a metà strada tra il crepuscolo di pianura, prosaicamente subissato dalle luci artificiali, e il riflesso della mia sagoma sul vetro

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questa musica mi accompagna per l’intero viaggio di ritorno attraverso il periurbano che comincia a vestirsi di luci per il natale vicino: un susseguirsi di attività commerciali volgarmente esibite, di ampi parcheggi senza posti liberi, insegne, vecchie costruzioni risalenti agli anni sessanta ormai in dismissione mentre edifici nuovissimi ed ancora vuoti mostrano controluce il loro scheletro di vetro e acciaio
scorrono capannoni chiusi per cessata attività e negozi le cui vetrine sono oscurate da fogli di plastica, aree di deposito ed ampi spiazzi di ricevimento centrati da fontane estinte – ogni tanto individuo le finestre accese di qualche infelice abitazione che sopravvive asfittica tra tutto quel ciarpame commerciale e lo smog del traffico ininterrotto della statale / è una delle tante las vegas di seconda mano che costellano le strade comunali di tutta la penisola – tristi, precarie, grondano concessionarie e centri commerciali, ipermercati e terreni di deposito
un territorio senza regole e senza stile – forse potrebbe essere dovunque

entrando in città aumenta il numero delle finestre accese, di quei minuscoli frammenti di sguardo posati sulle vite di altri: l’angolo di un letto a baldacchino con le tende bianche, un vecchio lampadario a gocce di vetro, un vaso di ciclamini controluce / siamo nel tardo pomeriggio, la corriera raccoglie le stanchezze variegate di chi torna dal lavoro – si assomigliano tutte, si rispettano – qualcuno riposa, qualcuno parla al telefono, piano / poi altre finestre,  progressiva metamorfosi del panorama entrando nel perimetro cittadino – il brulicare del traffico urbano provoca un graduale risveglio dello sguardo alla mondanità, e un vago sollievo dell’animo, a lasciare indietro tutto quel ciarpame commerciale

non c’è un senso preciso in questi discorsi – sono luci e colori che addolciscono temporaneamente un panorama privo di chances: il blu quasi nero del cielo che a un certo punto si confonde con il rivestimento a quadrotti dell’insignificante edificio di gregotti al terminal nord, dove il centro commerciale è costellato da migliaia di piccole luci viola che sottolineano la prospettiva della grande curva che affaccia sul parcheggio; il colore dei fari delle auto, un incessante sfocato alternarsi di bianco giallo e rosso; e il carosello mediocre delle insegne di questa strip de noantri, che cresce e si rigenera oramai da quarant’anni e che ogni giorno diventa brutta, e continua a diventare brutta, tanto che uno si chiede qual’è il limite di questo disordine pacchiano di cartelli pubblicitari e capannoni, dei bagliori di carrozzerie sgargianti che si alternano senza mediazione agli angoli dove nell’ombra riposano vecchie lamiere e pile di mattoni – qual’è il limite di questa bruttezza legittimata per fini commerciali, oltre il quale un’amministrazione regionale decide che anche le periferie hanno diritto a una dignità estetica e sociale, che il paesaggio è di tutti e che ognuno di questi viaggi nel periurbano ci disabitua alla bellezza, ci addormenta l’interesse per il valore del territorio e ci fa dimenticare come erano belle le campagne friulane (e italiane) fino a dopo la guerra

un mondo basato sugli acquisti e sulla dimenticanza non va da nessuna parte

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