questa non è una recensione di bright star
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stamattina leggevo un interessante trafiletto sul blog di bob, dedicato all’ultimo film di jane campion, bright star / confesso con un certo imbarazzo che ho visto questo film più volte, nel tentativo di individuare dei punti a suo favore, ma ad ogni sguardo la mia posizione si induriva e mi conduceva sempre più in direzione di un giudizio tranciante /
tale insofferenza deriva da un’inflazione dilagante nei prodotti culturali che però sono sempre più ben confezionati e coprono abilmente ogni minima vacuità culturale con una sapienza formale sottilmente subdola /
insomma, succede un poco quello che mi sta capitando in casa, dove a suon di andare per mercatini delle pulci ho accumulato una quantità di capi d’abbigliamento decisamente esagerata / l’inutilità sostanziale di tale accumulazione (pur trattandosi di articoli belli e scelti con cura, dalla gonna di hermés alla giacca vintage di max mara, al maglione praticamente nuovo in mohair bianco, tutti invariabilmente ottenuti al prezzo risibile di pochi euro) sta superando il piacere di indossare i capi acquistati, che devono trovare spazio dentro armadi già piccini di per sè e che rimangono spesso inutilizzati (perché mica mi cambio tre volte al giorno!) /
così, all’uscita sul mercato di un film o di fronte a un libro, mi interrogo con sempre maggior determinazione se sarà l’ennesima caramella ben confezionata o se invece potrò imparare qualcosa di nuovo, se quel libro o quel film merita un posto nell’esiguo spazio della mia vita fisica ed anche nella brevità di quella biologica / non è sempre immediato capire il valore culturale di un prodotto (e l’uso della parola prodotto è emblematica in questo caso rispetto allo stato dell’arte) / a volte finiamo per leggere o guardare qualcosa prima di poterne percepire la sostanziale inutilità e la vacua bellezza / a volte ci accorgiamo persino dopo un certo tempo, dell’inconsistenza di ciò che avevamo chiamato bellezza /
del resto, imparare è diventato un atto tecnicistico (si impara a guidare, si impara a usare il computer), ma quanti si accostano a certe discipline con l’intento o l’idea di imparare qualcosa di nuovo (che equivale poi a modificare il proprio assetto, a non rimanere uguali e fermi alla condizione precedente)? quanti vanno al cinema per imparare, e quali sarebbero poi i film che uniscono alla qualità una consistenza cognitiva? lo stesso accade con la musica, con molta letteratura, accade nell’approccio passivo o meramente edonistico ai prodotti che consumiamo senza distanza critica e senza effettivamente scegliere secondo un gusto personale ma seguendo induzioni che provengono da un intorno perennemente soverchio /
that’s entertainment? possiamo davvero farci bastare il mero intrattenimento e pensare a una società che lavora e vive con l’unica aspettativa di riempire il proprio tempo libero e gli interstizi tra i vari tipi di sacrifici e impegni quotidiani con il solo divertimento di superficie che non implica alcuno sforzo di metabolizzazione?
nessuno (men che mai la sottoscritta) intende con questo negare l’importanza del piacere e tantomeno dell’ozio, che però mi pare costituiscano due universi che ben poco hanno a che vedere con la piacevolezza sbiadita e passiva che accomuna mandrie di consumatori nei centri commerciali o dentro a certi cineplex /
e qui andrebbe declinata con maggior attenzione la doppia valenza della parola consumatore in questo specifico contesto: che si rivolge senz’altro all’oramai sovrano impulso a fagocitare (e successivamente ad espellere) cose e situazioni scelte con minima attenzione alla loro reale necessità (men che meno alla loro qualità), al fine di ricaricarne delle nuove, altrettanto effimere, nella ricerca spesso compulsiva di un piacere di breve durata /
ma c’è anche il secondo aspetto, vale a dire il fatto che attraverso questo approccio isterico e ininterrotto, ciò che viene consumato senza rigenerazione o ricavo è primariamente il tempo personale, un tempo impostato sulla permanenza in una stessa condizione che non cambia, in cui la persona rimane uguale a se stessa (nella contraddizione di una biologia che nel frattempo evolve e degenera), contraddistinto dal succedersi di una serie di cose, sostanze ed eventi, fruiti nell’indifferenza piacevole che prevede l’assenza di sforzo e di elaborazione critica /
come e cosa può scegliere una società impostata su simili consuetudini?
io stessa non sono immune da un simile atteggiamento ed osservo come il primo elemento a cadere in disgrazia a causa di questa collezione di impulsi superficiali sia la memoria, la nostra capacità di trattenere e collocare le cose viste e sperimentate secondo una gerarchia di valori e soprattutto all’interno di una struttura relazionale (intesa non solo come strutturazione delle conoscenze ma anche come rapporto tra noi e l’esterno e tra noi e il nostro prossimo)
qual è la natura autentica del piacere e quanto tali abitudini di fruizione vanno ad impoverire la nostra capacità di godimento? una società che ha una percezione epidermica dei piaceri può conoscere altre profondità e nutrire qualche forma di passione umana?
dunque è evidente che questa dissertazione noiosetta si dispiega nel tentativo di mettere a salvaguardia il piacere, la nostra capacità di persone di appassionarci ancora per un’idea politica così come per il lavoro di un artista o di uno scrittore, per un buon vino e un cibo preparato con sapienza /
immagino una società che sceglie e non si lascia scegliere
(e qui potrei chiedermi se il risultato dei referendum è stato davvero frutto di una scelta condivisa da tanti o di un fortuito traino da parte di alcuni, anche parecchi, rispetto a un parterre di votanti che hanno approvato senza pensarci troppo su – perché in fondo questa volta scegliere era abbastanza facile, visti gli argomenti e dovendo rimuovere al più presto il fastidio -anche visivo- di una classe politica che sta riuscendo nell’intento eroico di stare sulle scatole perfino agli stupidi) /
…ma si comincia una frase con una parentesi?

 

 

 

 

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